Dopo un inizio sfolgorante, caratterizzato dall’apertura di un’epoca nuova all’insegna del dialogo, della pari dignità, del disarmo nucleare e dei comuni interessi, negli ultimi tempi la stella di Barack Obama continua a brillare sì, ma di luce un po’ meno fulgida. Probabilmente prima era la politica di Bush ad essere temuta ed attaccata, per cui ne era nata una demonizzazione dell’uomo, ora è la persona di Obama ad essere temuta ed ostacolata con vari mezzi.
Il presidente Usa si è imposto a livello internazionale per la caratura delle sue idee e della sua abilità, anche dialettica, ma la sua “superiorità” dà fastidio a molti.
È forse questa la chiave di lettura che spiega la bocciatura secca di Chicago a sede dell’Olimpiade del 2016. Certamente era giusto che l’America Latina fosse investita di questo riconoscimento, ma il modo in cui la bocciatura è avvenuta autorizza anche l’interpretazione cui abbiamo fatto cenno. In più, il presidente, sicuro della sua marcia trionfale, ha commesso l’errore di andare a Copenaghen a sponsorizzare, insieme alla moglie, la candidatura americana. Se non l’avesse fatto, sarebbe stato accusato di non averci creduto e di non essersi speso personalmente; ora che l’ha fatto viene accusato di aver messo in gioco il suo prestigio, perdendolo e facendo fare agli Usa una magra figura. In ogni caso avrebbe sbagliato, a meno che Chicago non fosse stata premiata, il che, appunto, non si è verificato.
Le quotazioni del presidente sono scese anche in seguito alla sua decisione di non accogliere personalmente il Dalai Lama, ma di averlo fatto fare alla presidente del congresso. Il motivo è evidente. Dopo la costituzione del G2 tra Usa e Cina, Obama non poteva ricevere con tutti gli onori il Dalai Lama senza irritare il partner cinese che vede il capo del buddismo tibetano in esilio come il fumo negli occhi.
In effetti, se la partnership sino-americana potrà aiutare il mondo a scongiurare guerre, a vivere in pace e a segnare una nuova era di sviluppo, il gioco a nascondino del presidente Usa nei confronti del Dalai Lama potrebbe passare senza che nessuno se ne ricordi. Il guaio è che in questo modo, pur con tutte le giustificazioni del caso, l’aureola di presidente idealista è venuta meno. Obama ha sacrificato gli ideali sull’altare degli interessi di Stato e alla fine ha lasciato il destino del piccolo popolo tibetano sotto le grinfie dell’orso cinese. L’altro guaio è che se è vero che in prospettiva l’alleanza Usa-Cina porterà pace e progresso al mondo intero, è anche vero che mentre questa è un’ipotesi tutta da verificare, la realtà di oggi è che milioni di cinesi vivono sotto l’oppressione e che la Cina sta andando ad espropriare una grande parte dell’Africa delle sue risorse, instaurando un nuovo e certamente non meno crudele colonialismo.
Tuttavia, è vero anche che Obama nulla può per cambiare le cose in Africa o nel Tibet, tanto vale chiudere un occhio e lavorare per un futuro che si spera migliore. Resta, però, che la sua immagine si sia politicamente un po’ appannata, anche se il Nobel per la Pace lo ha rilanciato nel futuro.
Cosa deve fare il presidente per risalire la china? Uno dei problemi internazionali più acuti è l’Afghanistan, dove i talebani stanno tenendo sotto scacco le forze multinazionali della Nato patrocinate dall’Onu e dove le difficoltà rischiano di aumentare, anche perché al caos politico potrebbe succedere tra non molto anche la sconfitta militare. Ebbene, alla Casa Bianca c’è una grande discussione in corso in seguito alla richiesta del generale Stanley McChrystal di avere non meno di 40 mila soldati in più. La tesi del generale è che per sconfiggere i talebani e i loro alleati terroristi bisogna controllare il territorio per poter sferrare l’attacco finale o i vari attacchi finali. La tesi del vice presidente Biden è che non c’è bisogno di un aumento di soldati. Egli sostiene che si deve fare un accordo con i talebani, coinvolgerli nella gestione del governo e procedere con attacchi mirati contro le bande islamiche che, a suo giudizio, sono poco più di cento.
Se il presidente propenderà per l’una o l’altra tesi, la differenza è sostanziale e ne va anche del prestigio suo e dell’America. Se, infatti, verrà adottata la soluzione Biden, ci sarà un progressivo ritiro dei soldati dall’Afghanistan (e alcuni Paesi come la Germania o la stessa Italia forse lo farebbero con un sospiro di sollievo) ma anche il ritorno dei talebani al potere e ciò inevitabilmente porterà alla situazione di prima del 2001, quando, come si ricorderà, ci furono i bombardamenti delle statue dei Buddha e c’erano gli sgozzamenti e le fucilazioni di massa senza processi per coloro che erano colpevoli soltanto di voler vivere in maniera più libera. Come si potrebbero giustificare tante risorse sprecate, tante vite distrutte, tanti paroloni emessi in nome della libertà, della democrazia e della pace se poi si ritornasse alla situazione che aveva portato alla guerra?
Viceversa, la situazione in Afghanistan è giunta al punto in cui per vincere e per creare qualcosa di nuovo e di duraturo bisogna fare uno o tutti gli sforzi in più. Ne varrà la pena? A nostro avviso sì, perché se si riuscisse a creare un Paese nuovo sarebbe segno di una vittoria, non solo militare, ma anche politica e civile e ciò andrebbe a merito di chi ha creduto ed operato per quest’esito.
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