Ogni commentatore, malgrado siano passati già dieci giorni, continua a manifestare la sua incredulità di fronte all’atto delle dimissioni del Papa, che hanno avuto il potere di scuotere il mondo, sia perché non sono un fatto usuale, sia perché nessuno poteva davvero immaginarlo. Anche perché, tra le tante dichiarazioni della prima ora che cercavano di individuare una ragione valida per giustificarle, non si poteva non pensare a quella espressa dal cardinale Stanislaw Dziwisz – unica che non ha approvato il gesto del Papa – che ha detto: “Non si scende dalla croce”, additando l’esempio di Karol Wojtila che, visibilmente sofferente, ha percorso il cammino del suo pesante ministero fino alla morte.
Però, più passano i giorni e più emerge il carattere rivoluzionario del gesto del Papa, che prima di tutto è stato non un atto di paura, ma un atto di umiltà, poi è stato un esempio di coraggio e di grande valore spirituale. Il Papa stesso ha motivato le sue dimissioni con l’età, con la mancanza delle forze fisiche che vengono sempre meno, ma ha colpito quel riferimento preciso al “bene della Chiesa”. In sostanza, se non si fosse dimesso, poco sarebbe cambiato nei prossimi anni, fino alla sua morte. Sarebbe sicuramente stato giudicato positivamente, ma non è questo che interessa a Joseph Ratzinger: a lui come uomo di fede e come Papa interessano non l’esteriorità, non cosa dice la gente, non i giudizi positivi su di lui, ma, appunto, il bene della Chiesa, cioè la sua missione, che è quella di trasmettere e vivere il messaggio evangelico.
Dimettendosi e riconoscendo le sue poche forze nell’imprimere la svolta necessaria all’interno della Curia Romana, in realtà ha posto tutta la Chiesa, compresi soprattutto i cardinali di ogni Paese, quelli in particolare che dovranno eleggere il nuovo Papa, di fronte alle loro chiare responsabilità. Nella Chiesa, in Vaticano, molti alti prelati sembrano lasciarsi guidare più dalla carriera, dalle loro personali ambizioni, che dal messaggio evangelico nella loro condotta di vita. Dove lui non è riuscito – non perché debole o dalla voce fioca, ma perché la realtà è più drammatica di quanto non si pensi – potrà riuscirci il suo gesto. Ma non si tratta solo di “individualismo”, di ”carrierismo”, si tratta degli scandali di pedofili spesso “coperti” da vescovi che badavano più a non far esplodere gli scandali che a reprimerli, magari in nome di un generico perdonismo, ma in realtà lasciando incancrenire una realtà oscura.
Dai giornali abbiamo appreso che già nel 1995 il futuro Benedetto XVI era uno dei pochi che voleva “pulizia” per davvero, senza guardare in faccia a nessuno, al punto da presentare le sue dimissioni da cardinale a Giovanni Paolo II, che poi riuscì a farle ritirare. Abbiamo appreso anche che da Papa, ha inasprito la legislazione contro chi si lasciava andare a pratiche di pedofilia. Ma c’è dell’altro, di peggio. Benedetto XVI è rimasto inorridito di fronte all’ampiezza delle trame, dei maneggi, delle pratiche che all’ombra del Vaticano e nelle stanze dello Ior avvenivano e avvengono ai danni della Chiesa, deturpando continuamente e sistematicamente il messaggio evangelico e sfregiando l’immagine della Chiesa e dei tantissimi uomini di Dio che vivono intensamente la fede fino a morire, come succede anche ai tanti martiri di oggi.
Il futuro Papa, gli stessi cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi e laici, hanno la strada segnata dal drammatico grido di Papa Benedetto XVI, non possono più far finta di nulla, sono obbligati, sotto pena di una grave responsabilità, alla svolta, personale e come Chiesa. Altre volte nella storia millenaria della Chiesa ci sono state crisi, anche gravi, da cui poi la Chiesa stessa è riuscita a trarre lezioni per rinnovarsi. Non può non succedere anche questa volta. E’ scritto che le forze del male non prevarranno: quello che appare un atto di debolezza e di rinuncia è in realtà un atto di forza, più fecondo di qualsiasi scontro a muso duro. Benedetto XVI è stato capace di tutto questo con un piccolo, grande atto di semplicità e di umiltà.