Manuel Foffo e Marco Prato: simboli di una generazione sconfitta e perduta
Appartengo alla generazione che ha vissuto la miseria del dopo guerra italiano. L’Italia, umiliata e sconfitta, cercava il suo riscatto nel contesto delle libere nazioni europee e fu poi, negli anni cinquanta sessanta, essa stessa protagonista dei primi processi di costruzione dell’Unione.
Un’Italia povera. Ma di una povertà portata con l’orgoglio di chi possiede il lume e la forza per guardare avanti verso un futuro più civile e umano.
Basti pensare al coraggio con cui milioni di uomini e di donne affrontarono l’epopea dell’immigrazione interna dal sud al nord e dell‘emigrazione senza certezze sul loro avvenire. Poveri e mai domi: Generazioni che hanno cambiato il paesaggio e il destino della giovane repubblica.
Un popolo che scoprì il dolce suono della democrazia, una musica sconosciuta di cui si innamorò sino a rimanerne ammaliato e prigioniero.
Non ci fu molto tempo, allora, per l’evasione e il divertimento, se non il cinema, talvolta, e la popolare balera in cui, da giovinetto, dopo tanti passi a piedi scalzi per non sciupare l’unico paia di scarpe, passavo le tre ore di ogni serata domenicale anelando qualche passo di danza con la Carla, un amore non ricambiato e per la quale serbo, tuttavia, un dolce ricordo. Una domenica di fine maggio, forse per l’assenza dei soliti adulatori ai suoi piedi, accettò i miei timidi approcci. Ne fui talmente attratto da serbare tuttora un nitido ricordo.
Era più alta di me, mannaggia. E di rara bellezza mediterranea.
Il viso angelico, sovrastato dall’ampia fronte coperta, talvolta, dal selvaggio flutto dei capelli castani che ella, civettuola, amava far svolazzare al ritmo del valzer. E quei grandi occhi di un azzurro intenso su cui alzavo lo sguardo cercando un accenno, un sì da permettermi di rivivere il sogno.
Passeggiando in piazza Garibaldi, nell’aprile dell’anno che fu, un’anziana signora, passandomi accanto, si arresta, mi osserva e accenna un sorriso: ciao, Gianni. Era lei. Fui spinto all’abbraccio ed ella arrossì. Il tempo e forse la vita, impietosi, avevano macchiato il ritratto, ma non quei suoi occhi rimasti d’azzurro come il cielo di un chiaro mattino al disopra dell’alpe in cui era nata.
Ciao, Carla. Era un abbraccio sincero, prodotto dal cuore. La mia generazione: povertà, studio, lavoro e pudici amori. Aspettando il domani, come scrisse il sommo poeta, Leopardi.
Il domani fu poi il miracolo italiano degli anni sessanta, settanta.
Cambiarono i costumi e nacquero nuovi rapporti sociali. L’Italia costruì la sua modernità.
E fu in quel periodo, contrassegnato dagli indubbi progressi economici e da un profondo cambiamento dei costumi e dei modi di vivere, che apparve la Circe maligna, la droga: cocaina, cannabis, Hashish. Una piaga che infestò il paese, sconvolgendo la vita di milioni di giovani attratti dal mito che avvolge.
Quando torno al villaggio natio passo sempre a salutare i miei cari, a riposo nel luogo dei più. Allungo uno sguardo, tra il triste e pietoso, a quei giovani volti su steli indicanti l’estinzione così repentina di un sogno.
Gli anni sessanta-settanta in cui passò, che dico?, a miglior vita, tanta parte della nostra gioventù. La droga è oggi la piovra che sconvolge tanti giovani, fautori di gesti che nulla hanno di umano. Una piaga per molti aspetti dissimile da allora. Una gioventù, in quel tempo, impreparata e disarmata.
Si abbandonò all’estasi con l’infantile candore della prima avventura d’amore. Carpita dal fascino, cercò ogni mezzo, sino al furto e forse la rapina, per procurarsi la mistura. I più si autodistrussero prima di aver ammorbato le famiglie e gli affetti. Era il sintomo di una tragedia umana e di massa.
Ora siamo oltre e in confini inesplorati.
Manuel Foffo e Marco Prato, due ragazzi, ci raccontano la vittoria di una cultura della violenza, ramificata e di massa, di cui, internet, è il suo profeta.
I due hanno infierito e ucciso per divertirsi. Spinti, probabilmente, dalla mistura chiamata, non a caso, “Animal”. Uno dei due, con naturalezza: volevo anche uccidere mio padre. Altri centinaia, come loro, cercano l’inferno dei Foreign Fighters al servizio del mostro e del mito: uccidere, così per tastarne l’effetto che fa. Ribelliamoci, sperando che non sia già troppo tardi.
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