La sperimentazione alla Northwest Medicine di Chicago e guidata dalla dottoressa Eva Redei
Una buona notizia arriva da Chicago, dalla Northwestern Medicine, dove il gruppo guidato dal-la dottoressa Eva Redei sta mettendo a punto un nuovo metodo per diagnosticare la depressione, il cosiddetto “male oscuro”, che colpisce l’11% degli italiani e una percentuale più o meno uguale di persone di altre nazionalità. Siamo ancora a livello di sperimentazione, ma il primo stadio è superato in modo brillante. Qual è questa nuova metodica? Semplice. Bastano poche gocce di sangue, un normale e banale prelievo e il risultato è presto verificato e certificato. Ormai con un prelievo si possono identificare varie malattie, la depressione andrà sicuramente ad aggiungersi ad esse. Su un gruppo di 28 adolescenti compresi tra i 15 e i 19 anni è stato eseguito un prelievo, dunque, ed eseguito un test basato sull’attività di 26 geni, i quali hanno rivelato ciò che poi si sarebbe sviluppato in seguito con i sintomi tipici della depressione. Ebbene, su 28 adolescenti, ben 14 erano predisposti alla malattia. Ora il test verrà sperimentato con la fase due, cioè su un gruppo più ampio di soggetti e con l’approfondimento dell’attività non solo dei 26 geni considerati ma anche di altri. I ricercatori sono molto ottimisti, fra non molto si potrà diagnosticare la depressione attraverso un semplice prelievo di sangue. Non è poco, anche perché il metodo sarà “oggettivo”, cioè scientificamente replicabile, il che significa che, al contrario di quel che avviene oggi, non ci si può sbagliare sulla diagnosi. Oggi, infatti, la depressione non è riconosciuta sempre, o meglio, a volte viene considerato depresso e dunque paziente bisognoso di imbottirsi di pillole chi, magari, sta solo attraversando un brutto periodo dovuto a cause esterne, come la morte di un congiunto, la separazione, la malattia di un familiare.
Il nuovo, futuro metodo, invece, basandosi su un test genetico, darà risposte certe. Come ogni scoperta di valore, ci saranno i pro – e sono evidenti – ma anche qualche “contro”. Si pensi, infatti, alla diffusione della notizia secondo cui un giovane è predisposto per diventare un depresso: potrebbe essere isolato, comunque giudicato a rischio, in ogni caso non sarebbe una situazione invidiabile per quel soggetto. Anche perché – ed è la motivazione più seria – prima di occupare un posto importante, un’azienda potrebbe richiedere il test della depressione. Insomma, potrebbero sorgere degli abusi. La responsabile del Centro disturbi dell’umore del San Raffaele di Milano, Cristina Colombo, ha osservato: “Da un punto di vista della ricerca avere delle certezze è una cosa magnifica ma potrebbe diventare un metodo che discrimina a priori la popolazione a rischio”. Il test dovrebbe essere veicolato non solo sulla diagnosi, ma anche sulla prevenzione. Identificando i geni che favoriscono la depressione, si potrebbe aiutare i soggetti interessati a prevenire, sia con l’informazione, sia con i farmaci, la condizione in cui la malattia si sviluppa. Dice ancora la dottoressa Colombo: “Conoscere la causa delle depressione è il sogno di ogni esperto. Per ora resta sconosciuta. Lavoriamo solo sulla terapia. Ma se scopriamo che c’è una causa genetica allora si può pensare di mutare il gene, di fare una terapia genetica come avviene per alcuni tumori, ed eliminare i farmaci”.
Da una parte, è importante appurare attraverso un prelievo che si è depressi, dall’altra, scoprendo l’attività di alcuni geni, si possono mettere in atto condotte che possono accelerare l’insorgere della malattia, dall’altra ancora, scoperte le cause e i geni responsabili, si può intervenire con una terapia genetica per combatterla e per guarirla. La dottoressa Colomba fa degli esempi: “Se un paziente ha un disturbo bipolare un semplice accorgimento come il sonno controllato può fargli evitare la malattia e quindi le medicine. Un ragazzino che va sempre in discoteca, non dormendo mai, latentizza una malattia che non sarebbe magari mai nata, ma una banale condotta d’insonnia l’ha fatta esplodere”. Ecco perché sapere è anche potere, cioè poterla affrontare con cognizione di causa.