Il Times ha stilato la classifica delle migliori Università del mondo e per trovare la prima Università italiana, l’Alma Mater di Bologna, bisogna arrivare al 174° posto; La Sapienza di Roma, seconda italiana classificata, occupa a livello mondiale addirittura il posto numero 205.
Nessuna meraviglia. In un Paese dove gli atenei sono 95 e le sedi distaccate 320, dove 37 corsi di laurea sono frequentati da un solo studente, dove 327 Facoltà non superano i 15 iscritti, dove i corsi di laurea sono 5 mila e 500, dove le materie insegnate sono 170 mila di fronte ad una media europea di 90 mila, ebbene, non poteva essere che così.
L’Università italiana si è ammalata da quando i “baroni” sono diventati un centro di potere più che di ricerca; da quando i fondi destinati all’Università sono stati spesi quasi interamente per l’aumento del personale, spesso cooptato tra parenti e amici con concorsi addomesticati; da quando le presenze dei docenti non sono state più controllate; da quando è invalso il 27 politico; da quando le Università più che istituti di formazione e di ricerca sono diventate assemblee perenni e luoghi di potere e di scontri politici. In una parola, da quando nelle Università italiane non si insegna e non si studia più.
Ovviamente, anche da quando si è cominciato ad arrivare all’Università impreparati, con una conoscenza inadeguata della lingua italiana anche all’esame di maturità classica; da quando la scuola media e la scuola superiore sono diventate palestre di assemblee e di scioperi; da quando è stato abolito il voto in condotta, da quando i sindacati hanno fatto della scuola un campo di corporazioni intoccabili e via di questo passo. Con il ’68 la scuola e l’Università sono decadute: da diplomi e lauree dietro cui c’erano impegno, conoscenze e competenze a semplici pezzi di carte.
All’estero le scuole e le Università sono innanzitutto luoghi di apprendimento, di formazione, di educazione, di impegno e di serietà: è questo che le rende migliori.
Ed è da questi concetti che bisogna ripartire per risalire la china. La polemica sui fondi insufficienti è solo strumentale. Se i fondi sono tanti e vengono spesi male, non ne guadagnano certamente né lo studente, né la reputazione dell’Università, ma solo i “baroni” e la estesa cerchia dei loro amici, familiari e amici degli amici.
Il ritorno recente del voto in condotta nella scuola media e superiore, la misura recentissima della licenziabilità del personale statale assente o impreparato, la lotta ai certificati medici fasulli, l’attribuzione di una parte dei fondi alla migliore offerta formativa e alla qualità della ricerca, le nuove regole per la composizione delle commissioni d’esame: tutto questo – e ciò che ancora resta da fare – dovrebbe cominciare a segnare una svolta. La quale, se sarà vera svolta, cioè declamata ed anche applicata, darà i suoi frutti solo fra 10-15 anni.
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