Si sta per chiudere il settennato dell’attuale presidente della Repubblica, prestigioso statista e garante dell’unità nazionale, purtroppo spesso inascoltato
Si può dire quel che si vuole di Giorgio Napolitano, tranne che non le abbia tentate tutte per evitare di finire nel pantano degli ultimi 45 giorni. Nell’ottobre-novembre del 2011, di fronte al sorrisino di Sarkozy-Merkel all’indirizzo di Berlusconi, Napolitano capì che bisognava fare qualcosa. Contattò Monti chiedendogli se se la sentiva di fare il presidente del Consiglio a nome del presidente della Repubblica, aspettò che Berlusconi si trovasse in difficoltà numerica e quando avvenne, verso l’inizio della seconda settimana di novembre, seppure con una maggioranza ancora elevata al Senato ma con 2-3 voti di meno alla Camera, convinse Berlusconi a dimettersi, concordando con lui la data, cioè dopo l’approvazione del documento programmatico secondo le indicazioni dell’Europa, e incaricò il presidente della Bocconi, già commissario Ue, nominato prima senatore a vita.
Nacque, dunque, il governo Monti per iniziativa di Napolitano e sotto gli auspici dell’Europa, con un capolavoro di diplomazia. Berlusconi, fu convinto ad appoggiare il governo dal quale era stato estromesso ancora con una maggioranza evidente; Bersani fu d’accordo perché vide finalmente cadere il nemico; lo stesso accadde a Fini, a Casini e a Di Pietro. Solo la Lega gridò al golpe, perché – e forse non aveva tutti i torti – in caso di maggioranza perduta si sarebbe dovuto andare alle elezioni. Finì che la Lega e Di Pietro votarono contro e tutti gli altri sostennero, seppure separatamente, il governo Monti.
Il quale, all’inizio si rivelò l’eroe saggio e sobrio, soprattutto in Europa, poi, però, dopo l’approvazione della riforma previdenziale (di cui ora ci si rende conto essere solo lacrime e sangue), Monti, di fatto, non cambiò nulla in meglio. Oltre alle tasse eccessive che hanno affondato la barca Italia – cosa grave per un economista di fama mondiale – Monti diede un dispiacere a Napolitano con la decisione di partecipare, lui fino ad allora arbitro, alla competizione elettorale, contro chi lo aveva sostenuto, con l’obiettivo dichiarato di prendere voti sia al Pdl che al Pd.
Sappiamo come è andata a finire: Monti, con la sua politica economica tutta tasse, affidandosi a Fini e Casini, ha racimolato un magro 3-4% rispetto alle percentuali dei due suoi sostenitori. Ma, ovviamente, è stata tutta colpa sua e delle sue ambizioni, emerse prepotentemente dopo vari, malcelati rifiuti. Napolitano glielo aveva detto, ma non era stato ascoltato. Sappiamo anche quali sono stati i risultati elettorali.
Napolitano, allora, non ha perso tempo ad indicare la soluzione, l’unica seria: quella delle larghe intese o di un governo Pd-Pdl, ma i suoi accalorati inviti sono caduti nel vuoto, e questo è stato per l’anziano presidente della Repubblica un dispiacere, tanto più che a darglielo è stato il segretario del suo partito, che è rimasto irremovibile: o con Grillo o un governo di minoranza, che non si sa bene come avrebbe potuto reggersi. L’amarezza di Napolitano, però, non è stata dettata solo dal fatto che queste posizioni rigide siano venute dal suo partito, ma che siano rimaste tali soprattutto in presenza di una situazione, questa sì, davvero pericolosa per l’economia.
Eppure, già prima delle elezioni è stato proprio lui che ha invitato i partiti a fare almeno la legge elettorale. Niente. A questo punto, di fronte all’irremovibilità di Bersani, in un estremo tentativo di salvare il salvabile, ha tirato fuori dal suo cilindro la Commissione dei 10 saggi, con una forzatura costituzionale perché ha ridato i pieni poteri a Monti senza passare per un voto parlamentare, necessario in quanto si trattava di un nuovo Parlamento e non dello stesso che gli aveva dato la fiducia a suo tempo. Ma si può e si deve perdonargli questa forzatura, fatta nell’estremo tentativo di svelenire gli animi. Diciamoci la verità: non ci credeva nemmeno lui che dieci personalità potessero fare altro se non un bel documento e basta, non ci credeva comunque il presidente emerito Valerio Onida che lo disse in una telefonata privata ad una finta Margherita Hack.
Ora la Commissione dei saggi ha esaurito il suo compito, con la presentazione di una serie di proposte, più o meno ovvie e generiche, che rimangono lì a disposizione dei partiti e a giustificazione della sua stessa esistenza.
A chi lo invitava ad accettare un secondo mandato o a chi gli consigliava di accettarlo con la facoltà di dimettersi dopo un certo tempo, Napolitano ha risposto un secco no. Non è riuscito a favorire un clima di dialogo e di maturazione tra i partiti, ma questa è una responsabilità che solo loro la portano sulle spalle e nei confronti del popolo. Le lodi sperticate alla sua esperienza, al suo alto magistero, alla sua saggezza e via di questo genere, non sono state e non erano altro che lodi di convenienza e circostanza. Lui, Napolitano, fino all’ultimo ha rifiutato di essere considerato un alibi delle ambizioni altrui e si è impuntato quando gli è stato proposto di concedere un mandato pieno per un governo incerto e di minoranza. Se avesse accettato, non avrebbe risolto nulla, e lui, Napolitano, per quanto era nelle sue prerogative e nelle sue responsabilità, voleva chiarezza e non confusione, insomma non voleva creare “pasticci”, come ha detto in una conversazione a Mario Calabresi che l’ha riportata su La Stampa di domenica.
A quasi 88 anni, lui, comunista migliorista, uomo di parte, dopo l’elezione a presidente della Repubblica, si è dimostrato l’unico vero grande personaggio degli ultimi sette anni, purtroppo inascoltato.