Ci sono libri la cui storia bussa alla porta della nostra vita. Che rimangono in attesa di entrare nel salotto buono delle nostre abitudini e convenzioni, per verificarne il fondamento.
È questo il senso del romanzo di esordio edito da Garzanti, La famiglia degli altri, di Elena Rui.
Si tratta di una opera in parte autobiografica perché anche Marta, la protagonista, come l’autrice è una italiana espatriata.
“La sua attività lucrativa”, così Elena Rui descrive la sua Marta, “consisteva nelle lezioni di italiano impartite agli iscritti della associazione italo-francese Dante Alighieri dove, oltre ad organizzare raccapriccianti recite di fine anno in lingua, teneva improbabili corsi di cucina italiana che riscuotevano un successo, a suo avviso, immeritato. Insegnava perlopiù a pensionati, molti di origine italiana, nati in Francia da genitori che avevano giudicato più prudente non educare i bambini in una lingua all’epoca stigmatizzante. Proprio a causa dell’artificiale separazione dal contesto culturale da cui provenivano, una volta adulti andavano alla disperata ricerca delle loro radici, un effetto collaterale dell’emigrazione italiana e che le rendeva un migliaio di euro al mese”.
Storia di molti, storie di sempre, storia universale e senza confini geografici, anche questa è una storia di espatriati ormai integrati nelle consuetudini del nuovo paese in cui il destino li ha portati a vivere. Sino al momento in cui accade qualcosa che richiama alle origini. È quanto accade anche a Marta, che il funerale della amatissima nonna Ada riconduce al paese, nella provincia italiana.
Custode dei valori della tradizione, figura matriarcale, maestra in ciò che sin dall’infanzia una volta si insegnava essere il buon pensare che avrebbe guidato il nostro avvenire, nonna Ada ed il marito, osserva la autrice, “erano persone semplici, cresciute nella convinzione che il loro destino si sarebbe compiuto attraverso il matrimonio, la famiglia, i figli, il lavoro, il risparmio e l’acquisto di una casa. Noi,“ annota Elena Rui, ormai “non riusciamo più a considerare niente di tutto ciò come inevitabile. Eppure continuiamo a scimmiottare modelli che non ci convincono ma che siamo abituati a considerare normali”.
Ed ecco quindi che Marta si congeda temporaneamente dalla terra di Francia, sua nuova patria, dal suo
compagno e dagli “equilibri poco ortodossi” della loro convivenza umana ed artistica, ispirata alla relazione sentimentale fra Jean Paul Sarte e Simone de Beauvoir, letterati transalpini liberi nello spirito e nelle reciproche frequentazioni affettive e che, come osserva la Rui, “avevano conosciuto l’amore passionale e poi avevano avuto degli amanti. Senza mai allontanarsi, perché in fondo nessuno di quegli amori aveva significato per loro quello che significavano l’uno per l’altra”.
Il viaggio di ritorno di Marta dunque si trasforma, come si può leggere nel paragrafo seguente, anche in un ritorno alla socialità del suo paese oltreché alle sue origini, le medesime che una volta arrivata a destinazione scoprirà solo di avere dimenticato ma che riconoscerà immediatamente.
“Il termometro della Stazione Centrale di Milano segnava trenta gradi. Il sudore le imperlava la fronte. Sopportò con decoro i dieci minuti che la separavano dall’arrivo dell’Intercity. Si sedette accanto ad una vecchia signora, che sollevò la testa puntandole addosso due occhietti curiosi. Cercava il silenzio. Poche ore la separavano dall’incontro con il padre. Aveva deciso di focalizzarsi sul dolore che non sentiva, sperando che si svegliasse prima del funerale e non le lasciasse gli occhi asciutti”.
L’arrivo al paese natale impone a Marta un confronto con il passato, le consuetudini, i vecchi amori, il perbenismo del quieto vivere di una provincia che il lettore scoprirà essere tutto fuorché quieta, e che alla fine la protagonista tornerà ad abbandonare.
Sulla via del ritorno in Francia, dopo avere lasciato quella sua famiglia di origine che ormai è diventata “La famiglia degli altri”, come ricorda il titolo del volume, Marta ormai si scoprirà trasformata: “l’unica certezza”, annota Elena Rui, “era che i confini, per quanto arbitrari, salvano chi si rassegna a starci dentro. Danno senso, danno forma alle relazioni umane. Quando li si scavalca, il senso e la forma perdono consistenza. L’Essere per sé”, avverte la scrittrice richiamandosi a Jean Paul Sarte, “non coincide mai completamente con se stesso: lo caratterizza la mancanza di una parte di sé. Il valore cui tendono tutti i suoi superamenti è il valore di ciò che vuole essere. Questo valore è irraggiungibile nell’arco della vita umana: perché è proprio dell’uomo essere incompiuto”.
Queste conclusioni, cui Elena Rui giunge con una prosa coinvolgente, dinamica e personalissima, guidano il lettore ad una esperienza in cui ritroverà se stesso e che, terminato il volume, lo porteranno ad un desiderio inconsueto per i tempi nostri.
“La famiglia degli altri”, è un libro da conservare, che attende solo di essere nuovamente ripercorso, letto e vissuto.
Come le occasioni della vita, perse nell’eterno rincorrersi di libertà e coscienza, presente e passato, tradizione e rinnovamento, pietre miliari del cammino di una sorte che le cronache quotidiane fanno di tutto per portarci a dimenticare.
Ma che proprio per questo motivo non riusciamo a tradire, e solo dopo, sulla via del ritorno alla nostra quotidianità, ovunque essa sia, ricorderemo invece fare parte del nostro destino.
Nicoletta Tomei