Da sinistra e da destra le prime bordate contro il governo, ma si tratta di scosse di assestamento
Scosse di assestamento attorno al governo appena formato e che si è dato la sua composizione finale con la nomina di 40 Sottosegretari, di cui 10 vice ministri. Qua e là sono spuntate critiche sul metodo seguito, che è quello di un ripartizione in base ai partiti che sostengono il governo. Le nomine, in qualunque Paese quando il governo è di coalizione, si fanno in base alla rappresentanza numerica concordata. Non è “inciuco”, è nella logica politica. La prima gaffe l’ha fatta Michela Biancofiore, Pdl, nominata Sottosegretaria alle Pari opportunità e che ha detto che le donne sono più discriminate dei gay, attirandosi l’ira degli omosessuali che l’hanno accusata di “omofobia”. La sua risposta (“Sono ormai una casta”) ha infiammato il dibattito, per cui Letta l’ha spostata dalle Pari Opportunità alla Pubblica Amministrazione, un aggiustamento molto sensato.
Dicevamo che il governo sta subendo delle scosse di assestamento. Diciamoci la verità, il governo delle larghe intese è stato subito da quella parte dei democratici che non riescono a digerire che il Pd governa insieme all’odiato Berlusconi e che lo ha votato a malincuore, solo per senso di responsabilità verso il partito che altrimenti ne sarebbe uscito più a pezzi di quanto già non sia. Il dissenso quantificabile in 48-50 parlamentari è rientrato (a parte Civati che è uscito dall’aula al momento della fiducia e qualche altro), ma emerge nelle dichiarazioni, nelle interviste, nelle battute. Negli ultimi giorni sui maggiori quotidiani sono apparse le interviste di D’Alema, Veltroni e Renzi. Passi per Renzi che è l’uomo emergente del Pd, che con le sue dichiarazioni (prima le rottamazioni, poi il veto su Marini presidente della Repubblica, infine l’invito alla ricostruzione del partito) sta scuotendo il Pd stesso dando l’impressione di essere pronto ad assumersi le sue alte responsabilità, salvo dire che tanto lui ha 38 anni e che quindi può aspettare. A parte Renzi, dunque, D’Alema e Veltroni, i grandi antagonisti, non sono più parlamentari, non sono segretari del Pd, ma si comportano come se lo fossero. Il primo, sposando la politica delle larghe intese e accusando chi questa politica non l’ha capita subito, tra l’altro prendendo le distanze da Bersani, reo di non averlo difeso abbastanza quando Renzi disse che era da “rottamare” e dichiarandosi vittima delle faide interne del Pd per la mancata nomina a ministro degli Esteri. Il secondo, dettando la linea in interviste come se fosse lui ancora il Segretario del Pd. Veltroni ha provato a lanciare i primi strali al governo appena nato definendolo “anomalo” (con un certo disprezzo) e frutto della necessità e dell’esito elettorale, come se ci fosse stato bisogno di Veltroni per saperlo. Il fatto che abbia accusato il nuovo governo di non aver messo al centro della sua azione la lotta alla mafia fa capire la pretestuosità delle prese di distanza di Veltroni, che malgrado le promesse non riesce proprio ad andare in Africa.
Vogliamo dire che nel Pd comandano davvero, come ha osservato Marini, i potentati, inossidabili a qualsiasi cambiamento. L’altra scossa di assestamento l’hanno data Renzi e Fassina, quando hanno posto il veto a Berlusconi come presidente della futura Convenzione per le riforme istituzionali.
Le scosse di assestamento provenienti dal centrodestra riguardano non tanto la gaffe di Biancofiore quanto le dichiarazioni di Berlusconi di considerare l’abolizione dell’Imu e la restituzione di quanto i cittadini hanno versato nel 2012 il banco di prova del governo. E’ chiaro che Berlusconi insiste sull’Imu perché vuole apparire come colui che sgrava gl’italiani da una tassa odiosa ed è altrettanto chiaro che se non l’otterrà farà la parte di colui che non l’ha ottenuta ma che nella situazione di emergenza economica non può provocare una crisi di governo.
Il Cavaliere, per la verità, ha dichiarato ufficialmente che il governo non avrà nulla da temere dal Pdl perché non si può essere così irresponsabili da farlo cadere assumendosene poi le responsabilità di fronte agli italiani. Insomma, il Pd e il Pdl stanno facendo il gioco delle parti nei confronti dei loro rispettivi elettorati, ma sanno benissimo che il governo non si tocca e che questa è probabilmente l’unica, vera occasione per fare delle riforme importanti e per dare le risposte più urgenti alla situazione economica ed occupazionale in cui si trova il Paese.
La chiave di lettura della durata del governo è quella offerta da Letta stesso quando si è dato 18 mesi di tempo per trarre delle conclusioni. Sono i diciotto mesi che sono richiesti dall’iter delle leggi che devono cambiare la Costituzione. La Commissione di saggi ha consegnato delle indicazioni, dei titoli più che altro, ma a tutti è chiaro che si tratta di riforme non rinviabili e che si possono e si devono fare ora che esiste una maggioranza ampia, tale da scongiurare il ricorso ad un referendum abrogativo.
Insomma, Letta è partito con la consapevolezza che non ci si può aspettare da questo governo che risolva tutti i problemi, ma ha dalla sua, per durare, una condizione eccezionale che potrebbe benissimo giocare a suo favore e a favore della stabilità. La sua debolezza, in fondo, potrebbe essere anche la sua forza.