I simboli della folla scesa in Piazza Taksim entrati nella galleria Park Art a Istanbul
La protesta a Istanbul contro la trasformazione del Gezi Park in un grande complesso commerciale ma più in particolare contro lo scivolamento verso l’islamizzazione strisciante del Paese si è allentata per una serie di motivi. In primo luogo, perché c’è stata una dura repressione che ha finito per fiaccare la protesta; in secondo luogo, perché la materia del contendere è stata rimessa alla magistratura e comunque ad un referendum popolare. La protesta dei laici, comunque, è stata fiaccata ma non domata e, in ogni caso, ha prodotto un risultato straordinario: si è fatta arte. Ciò è dovuto, crediamo, soprattutto alla “qualità” della protesta, rivelatasi di grande efficacia quando si è fatta silenziosa e immobile, con le persone ferme, con un giornale o un libro in mano. Una protesta contagiosa, tra l’altro, imitata anche dai giovani che difendevano la politica di Erdogan. Il vice premier disse in quell’occasione: “Se è una protesta efficace e positiva, perché non la facciamo anche noi?”. E dunque il tipo di protesta ha fatto scuola, in Turchia e altrove, anche se poi c’è stata una repressione talmente dura, con gas lacrimogeni e urticanti e cannonate d’acqua, che la protesta stessa, per i motivi sopra indicati e anche per l’acuirsi della crisi in Siria e gli avvenimenti in Egitto, ha perso di volume.
Ma ora, più che la protesta in sé, c’interessa mettere in rilievo la traduzione in arte della protesta, avvenuta in tempi record. Le cannonate di acqua non arrivavano a colpire e a disperdere i manifestanti che già la galleria Park Art – nel distretto di Kadiköy, sulla sponda asiatica di Istanbul – si apprestava a rielaborare in chiave artistica le tensioni ideali e culturali che si esprimevano ed esercitavano in Piazza Taksim. Col titolo di “Estetica della resistenza” la galleria ha esposto 135 opere d’arte di 62 tra fotografi, illustratori, pittori, fumettisti, scultori, digital artist, turchi e anche stranieri, professionisti affermati o sconosciuti al grande pubblico.
La mostra rimarrà aperta al pubblico fino al 31 agosto ed è stata organizzata con criteri non accademici. Le opere esposte e anche gli spazi ad esse assegnati sono stati il frutto di una partecipazione collettiva alle decisioni, una specie di grande mostra autogestita. Ovviamente, ci sono tutti i simboli della protesta. L’artista iraniano Alì Mirzaiee ha dipinto mascherine antigas su una delle quali compare una ragazza in abito rosso ripresa da una fotografia fatta durante la manifestazione; Gaye Kunt ha ripreso a sua volta l’immagine vestendo di rosso la Venere del Botticelli, con in testa una maschera antigas; non poteva mancare la figura del pinguino, simbolo intellettuale della mostra, perché la CNN turca mandava in onda un documentario sulla vita di questi animali quando altre televisioni internazionali mostravano la protesta in atto. Alì Benice, in un lavoro d’illustrazione, ha riprodotto un enorme pinguino che cova una lampadina di colore arancione, il simbolo dell’AKP, il partito del premier turco Recep Tayyip Erdogan.
Ecco cosa dice il curatore dell’esposizione, Bahar Aykaç: “La selezione delle opere è stata compiuta con l’aiuto di un legale per tutelare noi e gli artisti. Questa mostra, infatti, è essa stessa una protesta”. Quando si va a vedere una mostra, si cerca di penetrare nella mente dell’artista. “Stare in questa galleria”, dice una donna che ha partecipato alla protesta, “è come guardare un album di famiglia. Qui si tratta di una mente collettiva, qualcosa di cui anche noi abbiamo fatto parte”.
A sottolineare il carattere collettivo della mostra è il fatto che i visitatori sono invitati a lasciare commenti e pensieri su bigliettini da appiccicare sulle pareti, un modo per coinvolgere tutti nel processo artistico. Un pensiero per tutti: “Ho asciugato le mie lacrime a Gezi”, è scritto su uno di questi, e non erano solo lacrime metaforiche.