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23 November 2024
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STORIE di Gianni Farina

La storia di uno sconosciuto eroe. Un uomo che non è più

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27 gennaio, Giorno della Memoria

Nel Giorno della Memoria, il 27 gennaio, celebrato in ogni città del mondo civile, scrivo per ricordare le vicende di un ragazzo nato nel momento sbagliato. L’anno in cui tuonò il cannone della prima guerra mondiale.
Il preannuncio dell’odio e dello sterminio razziale.
Egli acque nel sedici del secolo che fu.
Al primo vagito urlò di terrore.
Non fu, come avviene per tutte le creature, nell’addio al ventre materno.
Si erano cullati, i pargoli, al tepore del dono più grande che un supremo mistero abbia mai donato alla vita.
E forse udito, già dal primo loro essere, il battito del cuore immenso di donna, di ognuno, la madre.
L’impatto con l’aria che apre i polmoni al primo respiro, è apparso, e nessuno lo sa, la tempesta in un lungo, si spera, cammino.
Per lui, fu tutt’altro, un qualcosa di più, il ruggito lontano del cannone nemico che annuncia un destino.
Apprese presto, il ragazzo, il segreto del rombo.
E fu il vecchio maestro, un decennio più tardi, a raccontare all’imberbe le gesta dei tanti che osarono affrontare il malvagio al grido di “forza Savoia.”
La Patria: per lui, i prati verdi dell’alpe; la malga, ove viveva accanto a fratelli e sorelle, suo padre e sua madre; Perfino la piccola gerla che ognuno aveva in dono al compimento del primo decennio di vita, quasi fosse il preannuncio di una dura ventura; l’erta, di bianco ammantata, chiamata disgrazia. da lui scalata nei sogni per scoprire, oltre l’orizzonte, l’immenso;
attorno il mondo di sempre – vorrei dire – di povera gente, usa levarsi al primo sorgere dell’alba non ancora indorata dai raggi del sole, per poi assopirsi, le ossa ammaccate dal duro lavoro dei campi, che è già notte fonda.
Contadino. Pastore di mandrie e di greggi. Boscaiolo. Marmista nel tempo perduto, in inverno, quando la natura asseconda il lento bisbiglio del fiocco di neve. Passarono gli anni, sino a quando, un giorno d’estate del 1940, il nerbuto del monte ricevette una lettera con l’ordine di presentarsi a servire la patria. Fu in quel dì che il giovane ardito scoprì il senso di Patria. Parti per la guerra e nulla si seppe per anni del buon mite Ettore dal nome del mitico eroe.
Fu chiaro più tardi, quando apparve l’ombra di un giovane vecchio barbuto, aggrappato al batacchio della porta del vecchio casolare paterno.
Un sussurro: tanti sono sepolti lassù. Io sono tornato.
Già: Mauthausen, con tutto ciò che vuol dire quel nome di un luogo tra molti: Birkenau, Auschwitz, Dachau – E potrei scrivere a lungo, se la penna non tingesse l’inchiostro di un rosso sanguigno, come il dipinto del poeta maledetto che imbratta un paesaggio spettrale.
La viltà dei finti comandanti, dalle troppe mostrine stellate, che un otto settembre del 43, fuggirono – che dico, scomparvero nel buio di una notte efferata – al grido del “ si salvi chi può.” E fu la vendetta del turpe alleato, calato dal nord a profanare l’italica terra dei padri.
Oramai oltre i trent’anni, egli accorse, un pomeriggio d’ottobre, all’ appello del vignaiolo aldilà della valle baciata dal sole ogni giorno dell’anno. Incrociò una donzella mentre ella staccava il grappolo d’oro. Uno sguardo, e fu subito amore.
Nacque poi un virgulto dai riccioli biondi, come furono quelli del babbo in un giorno, oramai già remoto, molto prima dell’onta austriaca a Mauthausen, nell’ Oberdonau.
Da quell’anno iniziò un’altra vita.
Partirono i due, oltre l’alpe del vicino Bernina, accorrendo all’invito di un lontano parente, un valente operaio di una industria metalmeccanica nella città sulla limmat.
Scoprirono, più tardi, il trenino dipinto di rosso, che scala l’impervia montagna come fosse un invitto alpinista all’assalto di una vetta gardesana.
Per dirla un po’ tutta, il tratto iniziale non fu sul trenino, ma attraverso l’impervio sentiero del caffè. Così detto perché calpestato dagli spalloni con i sacchi dall’aroma fragrante.
Il motivo, era chiaro: occorreva nascondere l’imberbe fanciullo per il quale non era permesso l‘accesso alla nazione vicina e matrigna. In verità, il primo espatrio, alcuni mesi prima, fu a Chiasso. Con l’onta in colonna alla visita medica e delle ore d’attesa. La vista di un popolo triste dai tratti induriti di chi è nato già adulto. Ha vissuto vicende di dolore e miseria che Carlo e Primo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli” e “Se questo è un uomo”, hanno reso immortali.
Da allora, la Zurigo dal cuore di pietra, assistette ad un terzo percorso di vita.
E questa, da raccontare, è un’altra storia.
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