Quando il generale McChristal chiese ed ottenne, dopo vari mesi, altri diecimila uomini per poter occupare militarmente i territori liberati dai talebani – mentre prima il giorno venivano liberati e la notte rioccupati dai talebani stessi – sapeva quel che faceva. Il generale, come si ricorderà, fu sostituito agli inizi di quest’anno perché aveva messo pubblicamente in questione il principio di autorità, ma oggi si capisce meglio la sua richiesta, alla luce di quel che sta succedendo in Afghanistan. In sostanza, l’invio di altre migliaia di soldati è servito a rafforzare gli alleati e la loro capacità di azione e di controllo, ma è servito anche ai talebani a riflettere sulla prospettiva che si era aperta in quello sventurato Paese, ormai da più di quarant’anni distrutto da due lunghe e sanguinose guerre, prima con i russi, poi con gli alleati e con in mezzo il regime dei talebani fondamentalisti.
Il generale Petraeus, artefice della mezza pacificazione in Iraq, succeduto a McChristal, ha portato avanti egregiamente l’opera del predecessore, favorendo il dialogo tra il governo e i talebani moderati e rassicurando le varie tribù sulla loro sicurezza.
Oggi, ufficialmente, la via di uscita dall’Afghanistan da parte degli alleati è molto più chiara e passa per la via stretta ma necessaria del dialogo e della pacificazione nazionale. Alcuni talebani sono stati eletti in Parlamento in occasione delle ultime elezioni avvenute alcune settimane fa. Sembra una notizia, invece si tratta di una svolta, perché vuol dire che i talebani moderati hanno capito che non c’è alternativa alla pace, almeno per loro. Nel caso vincessero i radicali, per loro si metterebbe male; nel caso la guerra continuasse, si metterebbe male per tutti. Dunque, sono usciti allo scoperto e seguono il sentiero della pace. Da una parte il mullah Omar, capo talebano integralista ma favorevole alla pace, dall’altra Jalaluddin Haqqani, capo del talebani radicali vicini a Al Qaeda. Quest’ultimo è per la guerra ad oltranza, il primo ha dato il via libera affinché i suoi emissari s’incontrassero con quelli del governo per trattare la pace. Va da sé che la trattativa va avanti lentamente e senza risultati clamorosi, per adesso, ma a volte quello che conta non è il risultato, ma aver iniziato la trattativa. I risultati verranno dopo. Il mullah Omar, ovviamente, essendo identificato come un guerrafondaio, per sé si accontenterebbe di andare a vivere in un esilio dorato in una località segreta dell‘Arabia Saudita, ma prima vuole un calendario del ritiro delle truppe internazionali, cosa che è già nota dalle date ufficiali. Pochi giorni fa, riportano le cronache di politica internazionale, il presidente Karzai, in televisione, ha caldeggiato l’accelerazione di questo processo di pacificazione nazionale ponendo l’accento sull’indipendenza del Paese e mettendosi a piangere quando ha ventilato, in caso contrario, la possibilità che ”i nostri figli dovranno fuggire all’estero”: ”Non voglio che mio figlio Mirwais diventi uno straniero”, ha aggiunto asciugandosi le lacrime. In tutta questa teatralità c’è molto del carattere afgano, ma i termini della questione sono questi. I canali del dialogo sono stati benedetti da tutti, dal presidente Obama ai vertici degli altri Paesi dell’alleanza e al presidente Karzai. Alla fine del 2011, quando, secondo le scadenze ufficiali, gli alleati se ne andranno, non ci saranno né vincitori, né vinti, la vittoria apparterrà a tutti, in particolare alla pace e alla capacità degli afgani di farla crescere.
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