In uno slogan la vita che le donne vorrebbero.
Nelle centinaia di frasi pensate e urlate in piazza o scritte sui manifesti nei cento anni dell’8 marzo, c’é la storia delle donne italiane che puntano ad una nuova condizione e all’emancipazione.
Reclamano in famiglia e nel Parlamento pace, lavoro, diritti sociali e servizi; rivendicano rispetto e libera scelta sul proprio corpo. Insomma, la vita che le donne vorrebbero.
“Pace, libertà, lavoro. Per non vivere nell’angoscia, ma nella gioia unitevi a noi” recitava la prima ‘parola d’ordine’ dell’Unione Donne Italiane (Udi) nel 1949 in occasione dell’8 marzo.
“Donna, donna non smetter di lottare, tutta la vita deve cambiare!” incita un altro slogan che andava per la maggiore nelle movimentate e rabbiose piazze degli anni ’70.
Sono ispirati al momento storico che vivono gli slogan delle donne. Così è anche per l’ultimo, quello dell’edizione di quest’anno, dall’esplicito riferimento all’attualità: “Il corpo è mio e non ha prezzo”.
È un salto nel passato, questo richiamo al corpo che fa tornare in mente il popolare “L’utero é mio e lo gestisco io” e le tante versioni per l’autodeterminazione che ne sono seguite a partire da “Io sono mia”, ma non solo: “Libera nella maternità, autonomia con il lavoro, protagonista nella società” (1976).
Con gli slogan dell’8 marzo, c’é un’azione di denuncia ma anche un invito alla mobilitazione. La Giornata della donna è un’occasione, gli slogan colorano di festa la lotta per l’emancipazione ed enfatizzano: “Donna è bello”.
Negli oltre 60 anni di “parole d’ordine” concepite per l’8 marzo dall’Udi (la storica organizzazione delle donne nata nel 1945, diventata ora Unione donne in Italia), c’é la società italiana in movimento. Ecco alcune tappe.
Per la prima volta nel 1954 appare la parola emancipazione. “8 marzo. Trionfi l’ideale di emancipazione e di pace della donna italiana” si legge sui manifesti in cui spicca un ricco ramo di mimosa e un busto di donna fiera e sorridente con in braccio una gioiosa bambina.
Si va poi sul concreto chiedendo leggi di tutela e più servizi: “Sia il voto delle donne un voto per i loro diritti e per la pace” (1958).
E ancora: “Una società rinnovata nelle leggi, nel costume, nelle strutture per la donna e la famiglia” (1963); “Più potere alle donne per cambiare la società” (1968); “Per l’emancipazione femminile, una svolta nella spesa pubblica, nei consumi, negli investimenti: asili nido e scuola per tutti dai 3 ai 14 anni” (1971).
Alla vigilia del referendum sull’aborto (1981), la Giornata della donna difende la legge 194: “l’8 marzo dei due NO ai referendum sull’aborto, solidarietà fra noi donne, autodeterminazione. Il movimento delle donne rilancia la sfida”.
Nel 1983, sollecita la legge contro la violenza sessuale, che poi arriverà nel 1996: “Donna ‘persona’. In lotta per la nostra legge contro la violenza sessuale, in lotta contro il taglio ai servizi sociali voluti dal governo, in lotta per il lavoro”.
Nel 1991, con la prima guerra del Golfo, si torna alla pace. Ecco lo slogan: “Tra uccidere e morire c’é una terza via: vivere. La guerra è finita, la pace è da costruire”.
Seguono gli anni delle piazze poco numerose e sorge qualche dubbio e quindi “Il novecento è il secolo delle donne, ma…” (1998).
Nel 2005, il leit motiv sono i diritti dell’infanzia (“Le donne sanno.
Chiamano alla responsabilità del futuro, chiedono che ovunque nel mondo comunque siano nati le bambine e i bambini siano patrimonio comune dell’umanità”) mentre nel 2007 c’é il rilancio per le pari opportunità nei luoghi decisionali affermate dalla Costituzione. Lo slogan: “Metà del cielo metà del mondo. 50&50… ovunque si decide”.
Ed eccosi arrivati a quest’anno, che vede il ritorno, complici anche gli ultimi fatti di cronaca, al corpo: il manifesto dell’Udi riproduce la statuetta dell’elegante e seducente figura della dea serpente dell’età del bronzo. Con sotto il richiamo: “Il corpo è mio e non ha prezzo”.
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