“L’uomo del monte”, in questo caso la Lega Araba, ha detto sì ed è un sì che significa che l’Autorità palestinese, Abu Mazen, è stato autorizzato ad iniziare i colloqui indiretti con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Riparte l’avventura della pace in medio Oriente, interrotta quasi due anni fa con la raffica dei razzi partiti dalla Striscia di Gaza contro Israele, poi sottoposta ad una serie di bombardamenti di ritorsione dagli israeliani.
Dei “colloqui indiretti”, cioè di due delegazioni in due stanze diverse con un intermediario, George Mitchell, inviato di Obama, a fare da spola tra i due tavoli, si era parlato qualche mese fa e sono apparsi subito l’idea più avanzata del momento per far ripartire la trattativa. Poi, però, l’annuncio di Israele davanti al vice presidente Usa, Joe Biden, di voler procedere ad un piano di costruzioni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, ha fatto ripiombare la trattativa nella confusione, al punto che la visita di Netanyhau a Washington è stata snobbata platealmente dal presidente Usa. Mai i rapporti tra Usa e Israele erano scesi tanto in basso. Israele, di colpo, è stato isolato internazionalmente: non solo in America, ma anche in Europa, tra gli stessi Paesi, tipo Italia e Germania, che gli sono più favorevoli.
Di questa situazione insostenibile ha dovuto prendere atto il premier Netanyhau che dal suo partito, il Likud, ha ricevuto il mandato a negoziare dopo che la destra radicale è stata isolata. Dunque, con questo mandato, il premier ha rilanciato il piano di pace studiato durante tutto il primo anno di presidenza Obama.
Mancava solo il via della Lega Araba – sotto l’egida della quale avvengono i colloqui indiretti, a sottolineare l’impegno del mondo arabo a voler trovare una soluzione al decennale problema dei rapporti tra gl’israeliani e i palestinesi – che è arrivato il 30 aprile scorso. Si comprende come i protagonisti dei colloqui siano in fibrillazione. Lo è Hillary Clinton, lo è ovviamente il presidente Obama, ma anche Abu Mazen, il quale, in un’intervista a una tv commerciale israeliana, ha detto: “Metteteci alla prova”.
In effetti, il successore di Arafat conta sul traguardo finale. A suo avviso, le premesse ci sono. Esistono già dei punti su cui l’accordo c’è, e sono: le correzioni di confine tra Israele e il futuro Stato palestinese; la dislocazione in Cisgiordania delle forze della Nato a garanzia della stabilità e della sicurezza di Israele, la rinuncia ad una proclamazione unilaterale dello Stato palestinese. Infine, ci sono due altri aspetti su cui non dovrebbe essere difficile mettersi d’accordo. Il primo è Gerusalemme, capitale sia della Palestina che di Israele pur rimanendo città unificata, il secondo è se non la rinuncia quantomeno il ridimensionamento del piano israeliano di costruzione a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Forse, il meno entusiasta è proprio Netanyhau, ma sui suoi dubbi interverrà come una mannaia la minaccia dell’isolamento internazionale.
La ripresa delle trattative non significa automaticamente l’avvento della pace tra i palestinesi e gl’israeliani. Tante volte la pace è stata a portata di mano, altrettante volte è saltata per i troppi interessi contrastanti. Questa sarà la volta buona? La grande sfida – e la grande speranza – è proprio questa.