È proprio vero che chi entra Papa in conclave, ne esce cardinale. Dopo la rinuncia di David Milliband, candidato definito forte ed autorevole, Massimo D’Alema, candidato all’unanimità, secondo Martin Schulz, capogruppo del Pse al Parlamento europeo, era il favorito alla carica di Mister Pesc dell’Unione europea.
Gli appuntamenti ufficiali a Bruxelles, cioè la pre-riunione dei capi di governo socialisti, quella del Pse e quella dei capi di Stato e di governo, hanno però deciso diversamente. Il premier laburista inglese, Gordon Brown, aveva puntato i piedi su Tony Blair a presidente dell’Unione, di qui la rinuncia di Milliband. Ma Tony Blair aveva due avversari di peso: i socialisti, che gli hanno sempre rimproverato il sostegno alla guerra in Iraq quando era premier, e il duo Sarkozy-Merkel con vari altri capi di governo, perché la sua forte leadership avrebbe oscurato le cancellerie dei singoli governi membri. Quando Brown, nella pre-riunione degli otto premier socialisti, si è reso conto che su Blair non ci sarebbe stato l’accordo, ha subito proposto Cathrine Ashton a ministro degli Esteri dell’Unione, e nessuno ha detto di no. La successiva riunione del Pse ha confermato la scelta inglese ed è di conseguenza scattata la nomina del premier belga Herman Van Rumpuy a presidente.
Il giorno prima, in un editoriale sul Corriere della Sera, Franco Venturini ha scritto che comunque sarebbe andata, l’Italia aveva privilegiato l’interesse nazionale all’interesse di parte e che su questioni importanti aveva saputo fare il gioco di squadra. La realtà è che nessuno degli otto premier socialisti aveva appoggiato la candidatura di D’Alema. Si può capire Gordon Brown, che voleva e poteva aspirare ad un incarico di prestigio per un rappresentante inglese, ma è un fatto che nessuno degli altri ha fatto il nome di D’Alema: né Werner Faymann (Austria), né Robert Fico (Slovacchia), né il premier sloveno, né quello ungherese, ma nemmeno i leader “mediterranei” come Zapatero (Spagna), José Socrates (Portogallo), Papandreu (Grecia) o il leader cipriota. Quando Martin Schulz ha attribuito la sconfitta di D’Alema al “non fattivo attivismo del governo italiano” in realtà non è riuscito nemmeno lontanamente a mascherare l’imbarazzo dei socialisti europei che, tutti quanti uniti e solo loro, hanno bocciato il candidato italiano.
Hanno certamente pesato la “distanza” di D’Alema da Israele e la sua “vicinanza” con gli arabi (si ricordi la sua passeggiata con un esponente di Hamas). Ha certamente avuto la meglio la scelta di basso profilo adottata per il presidente e per Mister Pesc, ma va detto che la sua sconfitta ha anche un altro significato e risiede nella non credibilità degli ex comunisti – ora Democratici – tra i socialisti europei. Non basta avere un rapporto di amicizia con qualche esponente del Pse per essere accreditati a pieno titolo nella “famiglia” socialista europea. Una volta i comunisti trattavano con sufficienza i socialisti definendoli sprezzantemente “socialdemocratici”.
Ora rifiutano anche di chiamarsi ufficialmente socialisti, magari rivendicandone l’appartenenza solo in privato. Il tasso di ambiguità è ancora alto e questo i socialisti in Europa lo sanno.
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