Le elezioni si sono tenute il 24 e 25 febbraio, ma le Camere sono convocate il 15 marzo, cioè quasi tre settimane dopo. Si tratta di tempi storici che nelle democrazie del centro-nord d’Europa sono impensabili. L’inizio formale delle consultazioni per la formazione del nuovo governo è fissato per il 21 marzo. Anche se tutto andasse bene, il governo potrebbe vedere la luce solo dopo un mese e una settimana dalle elezioni. Non sappiamo se anche altrove esiste il “semestre bianco”, cioè il divieto di sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi di mandato del presidente della Repubblica, ma dubitiamo che nei Paesi citati esistano regole di vita democratica e istituzionale che mal si conciliano con le esigenze della rapidità, dell’efficienza e della funzionalità.
E’ vero che il Belgio è rimasto per più di un anno senza governo e che tra l’altro l’economia è andata meglio di quando c’era il governo, ma questo si è verificato sia perché nei Paesi del centro-nord d’Europa la responsabilità individuale e collettiva è di gran lunga maggiore che in Italia, sia perché nei Paesi citati l’amministrazione pubblica è indipendente dalla politica, funziona anche senza la politica, mentre in Italia amministrazione pubblica e politica vanno di pari passo, se si ferma la politica si ferma anche l’amministrazione, secondo una interdipendenza perversa e incomprensibile che è fonte di inefficienza e di sprechi.
Sia prima che dopo le elezioni ad essere messa sotto accusa del sostanziale pareggio tra il centrosinistra e il centrodestra e della conseguente paralisi istituzionale è la legge elettorale. Non è così, perché l’attuale legge alla Camera una maggioranza netta l’ha data. Per mantenere il bipolarismo e la stabilità basterebbe o rendere il Senato una Camera delle Regioni, con altri compiti e formata da rappresentanti delle Regioni, oppure modificare il premio di maggioranza attribuendolo al risultato nazionale e non più regionale.
La realtà è che si possono avere tutte le leggi elettorali che si vuole, ma se Camera e Senato restano un perfetto doppione, i tempi di approvazione delle leggi si allungano notevolmente, come già si sa. Se un presidente del Consiglio non può nominare e revocare i suoi ministri, si possono creare conflitti interminabili, come è già tante volte successo. Se ci sono tanti parlamentari che cambiano casacca a seconda delle convenienze è perché i regolamenti parlamentari sono vecchi di 60 anni e non garantiscono chiarezza, trasparenza e responsabilità.
Si fa un gran parlare di riforma istituzionale: tutti sanno che è indispensabile, urgente, ma se ne parla dagli inizi degli anni Ottanta, la cosiddetta Grande Riforma di Bettino Craxi, ma non se ne è fatto mai nulla.
Alla fine degli anni Novanta la Bicamerale di D’Alema fallì perché Berlusconi cedette alle convenienze dell’alleanza rinnovata con Bossi e anche perché D’Alema voleva fare una legge elettorale su misura per l’allora Pds. La riforma istituzionale approvata nel 2000 dal governo Amato passò con un solo voto ed era tanto lacunosa che ancora oggi i conflitti Stato-Regioni paralizzano la vita politico-istituzionale con ricorsi e controricorsi interminabili al Tar e al Consiglio di Stato. Nel 2005 fu approvata da Berlusconi una riforma istituzionale con buone proposte, ma essa fu bocciata da un referendum abrogativo. Da allora la riforma istituzionale vaga nell’etere.
Siamo un popolo di individualisti e di litigiosi e le riforme vengono fatte in base alle convenienze di parrocchia, non in base al bene comune dell’Italia. E’ questa la nostra tara. La nostra Costituzione è perfetta sulla carta, ma risale a oltre 60 anni fa. Le leggi vanno aggiornate, non dovrebbe essere un tabù parlarne, mentre in Italia lo è. E’ necessaria un’altra Bicamerale, o resteremo sempre prigionieri della nostra mentalità levantina.