Il governo presenta il programma e ottiene la fiducia della Camera con 453 sì (Pd, Pdl, Scelta civica), 153 no (Sel, M5S e Fratelli d’Italia) e 17 astenuti (Lega)
Enrico Letta, dopo aver giurato al Quirinale con procedura sobria ed affrettata a causa della notizia della sparatoria davanti a Palazzo Chigi, si è presentato alla Camera lunedì per presentare il programma e chiedere la fiducia (453 sì di Pd, Pdl e Scelta civica, 153 no di Sel, M5S e Fratelli d’Italia, 17 astenuti della Lega). La novità è venuta dalla Lega che si è astenuta, dunque il consenso si è ampliato in corso d’opera. Al Senato non ci saranno sorprese. Dei 21 ministri 9 sono Pd, 5 Pdl, 4 Scelta civica, 1 radicale (Emma Bonino agli Esteri) e due tecnici (Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d’Italia, all’Economia, e Enrico Giovannini, presidente Istat, al Lavoro e Politiche sociali). La fiducia è stata ottenuta. I presenti sono stati 623, i votanti 606.
Torneremo più avanti alle novità, che riguardano i nomi ma anche il tipo di governo. Cominciamo, però, con il programma. Enrico Letta ha detto “stop” all’Imu da giugno, in pratica l’Imu non si pagherà più, ma il governo studierà una riforma complessiva del sistema delle imposte. Questo era un punto cruciale: se non ci fosse stato lo stop dell’Imu, probabilmente il Pdl non avrebbe votato la fiducia. Dunque, c’è un primo sgravio per gli italiani. La priorità del nuovo governo è il lavoro e la riduzione delle tasse sul lavoro per far ripartire l’occupazione. Poi, si rinuncia all’inasprimento previsto dell’Iva dal 21 al 22% e si studieranno forme di reddito minimo per le famiglie bisognose con figli piccoli. Anche il finanziamento ai partiti sarà “rivoluzionato” partendo dall’abolizione della legge in vigore. Riguardo al taglio delle spese, Letta ha cominciato a dare il buon esempio abolendo la retribuzione di ministro a coloro che, essendo parlamentari già ricevono lo stipendio da deputati o senatori. Limitandoci ai titoli: meno tasse, più lavoro, riforma elettorale e riforma istituzionale, lotta all’evasione fiscale. Sulla riforma istituzionale, il premier ha detto che la Convenzione avrà tempo 18 mesi per elaborare una riforma istituzionale condivisa (poteri al premier, Senato delle regioni, diminuzione dei parlamentari, eccetera): se al termine dei lavori si sarà approvato un buon testo, allora dirà che il governo avrà lavorato bene, altrimenti, ha precisato, “ne trarremo le dovute conseguenze”. “Si vince o si perde tutti insieme”: è la linea del premier, ma anche quella del Pdl che è l’altro contraente di questo Esecutivo nato da uno stato di necessità, con carattere chiaramente politico e così voluto dal presidente Napolitano, che ne ha fatto una questione di principio: o politico o nulla.
Il linguaggio – oltre che gli argomenti – di Letta sono stati chiari ed essenziali. Il Pd si è ricompattato nel voto di fiducia, anche se rimangono perplessità e divergenze soprattutto da parte della sinistra e del gruppo dei cosiddetti “giovani turchi”, di cui fa parte Stefano Fassina, che ha detto chiaramente che tra questo governo e quello “di cambiamento” che aveva tentato di formare Bersani c’è una notevole differenza. Si sa, però, che quello di Bersani era più virtuale e velleitario che reale. I contrasti nel Pd resteranno confinati nel partito e si manifesteranno nella fase di preparazione congressuale e sicuramente postcongressuale, ma il governo ne sarà al riparo.
La novità del governo Letta, dunque, è nei punti programmatici, concordati con il Pdl, ma anche nelle ragioni della sua nascita: un governo che affronti i temi urgenti dell’economia e del lavoro e l’ammodernamento istituzionale dell’Italia, ma anche un governo di collaborazione e di pacificazione nazionale imposta tra l’altro dalle circostanze. Basta con le demonizzazioni reciproche, inizio di un confronto costruttivo e rispettoso. Certo, i mal di pancia ci sono, ma questa è la sfida voluta e imposta da Napolitano.
Dicevamo dei ministri. Sette donne (Nunzia Di Girolamo, Pdl, alle Politiche agricole, Cécile Kyenge, Pd, all’Integrazione, Josefa Idem, Pd, allo Sport e Pari opportunità, Anna Cancellieri, tecnico ma di Scelta civica, alla Giustizia, Emma Bonino, radicale, agli Esteri, Beatrice Lorenzin, Pdl, alla Salute, Maria Chiara Carrozza, Pd, all’istruzione e Università). Gli uomini, a parte Alfano, che ha 42 anni, sono tutti nuovi. I ministri Pd di caratura sono: Dario Franceschini (Rapporti col Parlamento), Carlo Trigilia (Coesione territoriale), Massimo Bray (Beni e Attività culturali), Flavio Zanonato (Sviluppo economico). Quelli del Pdl sono: Maurizio Lupi (Infrastrutture e trasporti), Gaetano Quagliariello (Riforme istituzionali), Angelino Alfano (vicepremier e ministro degli Interni). Gli Affari europei, la Pubblica amministrazione e la Difesa sono andati a Scelta civica, sovrarappresentata rispetto al suo peso elettorale, con Enzo Moavero Milanesi, Giampiero D’Alia e Mario Mauro). La sorpresa è stata la radicale Emma Bonino ministro degli Esteri. Emma Bonino è competente, il dicastero a lei dato, così importante, è un premio al merito, ma in termini di voti ha racimolato un magro 0,3% rimanendo fuori dal Parlamento.
Qualcuno, a destra come a sinistra, ha detto che è un governo monocolore democristiano e non ha tutti i torti. Vengono dalla Dc: Letta, Alfano, Lupi, Franceschini, Mauro, D’Alia, per citare quelli più importanti e riconoscibili. Ma il punto non è questo, è la capacità di fare squadra sia del governo, sia dei partiti che lo sostengono e la capacità di adottare provvedimenti incisivi per uscire dalla crisi. La vera sfida è solo questa, tutto il resto, dall’età al sesso e alla provenienza dei ministri, è secondario.