Torno da Roma con il Frecciarossa. Meno di tre ore e giá scorgo, in lontananza, lo Skyline della nuova Milano. Osservo, ammirato, il sontuoso palazzo della regione, voluto, imponente e luccicante, dall’ allora presidente della regione Lombardia, Roberto Formigoni. Un tipo un po’ cosí. Ambizioso, megalomane, ciellino arrogante , teso a pensare che tutto é possibile con i soldi della regione stato, ma anche geniaccio orgoglioso della sua patria padana.
Il tempo di un modesto ristoro ai tanti bar della nuova stazione centrale milanese per poi prendere l’ ultimo regionale per Sondrio e la mia Valtellina. Mi attende Etta, al capoluogo valtellinese, con la sua fiammante Panda sempre tenuta a punto con la sacralitá che i poveri danno alle cose della loro vita. Torno a casa, in definitiva. Ritorno dopo molti mesi di assenza con la gioia di ritrovare la mamma ultranovantenne che tanto parla di me con l’amore che solo una madre dedica ,in questo caso, al figlio prediletto. Rivedo il villaggio natio, eternamente dominato da quel pizzo che sognai in gioventú di scalare per scoprire cosa ci fosse al di lá della vetta. Il bambino irrequieto lo chiese, ripetutamente, a sua madre avendone sempre la stessa risposta: Milano. Milano con mille e piú case piú alte del monte vicino. E fu per questo che io passai la mia gioventú disegnando mostruose piramidi a cui diedi sempre un unico nome: Milano. Torno da Roma – dicevo – dopo una settimana inaugurata dal voto di fiducia al governo di Matteo Renzi.
L’ho ascoltato, come tutti , con interesse e curiositá. Molti lo hanno criticato. Io, al contrario, ho apprezzato il suo stile: quel dire a braccio anche un po’ confuso. Una conversazione tra amici per fissare il programma del giorno che verrá. Qualche svarione, tra un pizzino e l’altro, tanto per ritrovare il filo del discorso. Una dimostrazione di sicurezza – forse troppa – che lascia ben sperare per i mesi e gli anni a venire. E una fiducia totale nelle capacitá del paese di uscire dalla crisi. Suvvia, tra tanti profeti di sventura sul futuro destino dell’Italia qualche ventata di sano ottimismo non fa male. Parlo a mia madre, e la vedo svanita, assente, lontana. Mi osserva e non so se i suoi occhi esprimano gioia,tristezza, rimprovero o altro, chissá?, ricerca del tempo perduto. Una cosa mi sembra, purtroppo,di chiara evidenza: il corpo e la mente di quella creatura hanno subito le ferite del tempo passato a donare il lavoro e l’amore per tutti i suoi cari: l’ Ettore brontolone, come lei lo chiamava, la Etta e me stesso. Verrá il giorno in cui la grande candela, mia madre, irradierá il suo ultimo, flebile raggio di luce ed io sentiró un gran freddo entro il corpo e le ossa. E qualcosa , non so come dire?, fuoriuscire e partire per sempre al di lá dell’infinito di una notte stellare. In fondo, che cosa é l’eternitá?, se non quello spirito che ti tiene legato a tua madre, ai tuoi cari, e poi ai tuoi parenti lontani, i nonni e i bisnonni, atttraverso il racconto che di loro hanno fatto i viventi a te piú vicini.
Tengo appesa, nella stanza mia amica, una foto ingiallita a cui attacco ,ogni anno, la foglia di alloro del giorno di pasqua. Se ne sta in quell’ angolo, due metri piú in su del caldo tappeto, quasi fosse una icona della chiesa ortodossa. Ed io la posso osservare mentre scrivo di fatti e misfatti. Di cose avvenute o di ció che io penso verrá. Rappresenta un gran vecchio. La barba di un bianco natale che scende dal mento, maestosa e solenne, all’abbraccio del petto villoso. Un grosso bastone. Il cappello inclinato di fianco, come si usava nel film di ” Fronte del porto” col bianco e col nero. La pipa dello stesso colore. Di quelle ideate che meglio non puoi. Col cappuccio a proteggere il calore del braciere e quel fumo da sembrare l’incenso di chiesa. La saliera a tracolla. E attorno distese di pascoli nel fior dell’estate, il desco fiorente per mucche e vitelli che pensi vogliosi del pasto donato . Lontano e piú in alto indovini la chiesa del villaggio vicino, Castione. ancora oggi, imponente e piú bella che mai . Oltre non va il tu sguardo all’icona, anche se non ti costa fatica di ingegno disegnare ai tuoi occhi i pizzi dei monti disgrazia e bernina. Fu il nonno Ernesto, con cui ho vissuto gli anni piú belli della mia pubertá, a raccontarmi ogni giorno le imprese del barbuto suo padre.
Le gesta, le gioie e i dolori. La vita assieme vissuta. Io ero estasiato al racconto quasi avessi trascorso con loro quel pezzo di vita. Continuo a guardala, l’ icona, ed é come avessi vissuto con l’avo un tratto della mia eternitá.