Durante il terremoto in Emilia il giovane operaio Nicola Cavicchi morì in seguito al crollo di un capannone
Non è raro che sulla grande stampa si leggano opinioni tipo che in questo settore l’Italia è (sarebbe) all’avanguardia, in quell’altro tra i primi, secondi a nessuno nella legislazione sociale, tra i primi dove si lavora di più e amenità di questo genere. Specialmente poi quando si parla di protezione e garanzie sociali sembra che non ci siano eguali al mondo. La realtà è un’altra, e purtroppo molto amara. Prendiamo un recente fatto di cronaca, tra l’altro con esiti drammatici. Ci riferiamo alla morte del giovane operaio Nicola Cavicchi, deceduto in seguito al crollo del capannone della Ceramica Sant’Agostino durante le settimane del terremoto a Ferrara. Recentemente, in occasione della visita in Emilia del presidente della commissione d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro, Oreste Tofani, il padre del ragazzo ha provato a parlare del dramma delle vittime sul lavoro. Non sappiamo se il parlamentare l’abbia ascoltato e cosa gli abbia detto, ma certamente non ha potuto ridargli la vita, per cui il dolore del padre non ha potuto avere risposte in merito alla sicurezza, ai rischi, alle tragedie che in Italia fanno in media più di milleduecento vittime all’anno.
D’altra parte, non ci vuol molto a capire il dramma di una famiglia che aveva un figlio e che in giovane età se lo vede portar via dal crollo di un capannone che non era stato costruito secondo le regole. Non ci vuol molto a capire il profondo dolore di chi era padre e ha visto il figlio giovane morire prematuramente, lasciando nella vita dei genitori un vuoto e un dolore incolmabili. Si ha voglia a dire che si comprende, la realtà è che non c’è paragone tra chi comprende e chi quel dolore lo sperimenta giorno per giorno. Ma, ancora una volta, siamo di fronte a una situazione irreparabile. Bruno Cavicchi, però, non si è lamentato solo per quello che è successo, si è stupito per quello che è accaduto dopo, quando l’Inail gli ha fatto recapitare una cifra che lui ha ritenuto offensiva: 1936 euro e 80 centesimi. Possibile, si è chiesto, che una vita, la vita di mio figlio, la vita di un ragazzo valga poco meno di duemila euro? Qui lo stupore di Bruno Cavicchi si è mischiato con la rabbia di un’umiliazione da non credere. In effetti, alla rabbia dl padre dl ragazzo si è associata l’incredulità del presidente della commissione parlamentare infortuni sul lavoro. La vita di un giovane morto sul lavoro è stata valutata euro 1936 e 80 centesimi.
A rispondere nel merito ci ha pensato lo stesso Inail (Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro) con una comunicazione ufficiale: “La somma erogata non è il risarcimento per la perdita di un figlio, ma il contributo alle spese per il funerale. Le prestazioni sono disciplinate dal Testo Unico del 1965. Il defunto Nicola Cavicchi non aveva una famiglia a carico. Dunque, l’Istituto non ha potuto erogare una rendita ai genitori. A loro spetta solo il contributo per le spese funerarie”. Un semplice contributo, punto. Solo per le spese funerarie, altro punto. Per legge la vita del giovane non è oggetto di nessun risarcimento: punto finale. L’Italia dei primati fasulli non prevede nessun risarcimento ai genitori di un figlio morto sul lavoro. Le leggi più avanzate del mondo (si dice), in Italia si fermano al lontano 1965, cioè a 47 anni fa. Nel corso degli ultimi cinquant’anni, nessun aggiornamento, nessun adeguamento, nessuna riforma. Ai genitori del giovane morto non pagano nemmeno le spese del funerale per intero, ma solo un “contributo”, solo a una parte del funerale, magari solo l’inizio, o solo la parte finale. Roba da non credere.