Grande celebrazione per l’alloggio assistito per anziani di lingua italiana e spagnola
La fondazione Alterswohnen in Albisrieden (SAWIA) festeggia quest’anno i dieci anni di apertura di “Oasi”, una delle prime strutture assistenziali nate a Zurigo per anziani di lingua italiana o spagnola, ovvero per quella generazione di emigranti arrivati in Svizzera fra la fine del 1950 e l’inizio del 1960.
Di “Oasi” in queste pagine abbiamo già parlato, intervistando ospiti e familiari per conoscere meglio come si vive in un cosiddetto reparto mediterraneo. Nel 2006 l’apertura di questo alloggio assistito – fortemente sostenuta dall’allora direttrice della Fondazione Sawia, Liset Lämmler – fu il risultato di un processo che vide coinvolto l’associazionismo di lingua e cultura italiana e spagnola, preoccupato di creare strutture di sostegno ai tanti emigranti che erano ancora in Svizzera una volta raggiunta l’età pensionabile e non avevano più in programma di tornare in patria.
Fra i protagonisti dei tanti incontri fra la Fondazione, le associazioni quali Comites e Missione Cattolica, l’Ufficio per l’integrazione del Comune di Zurigo, volti a trovare soluzioni soddisfacenti alle varie esigenze espresse, c’era Bruno Cannellotto, a cui abbiamo chiesto di ripercorrere con noi le tappe di questo percorso che ha dato vita a questo riuscito esperimento di cura transculturale.
“All’inizio del nuovo secolo gli immigrati italiani in Svizzera, nonostante l’elevato numero dei rientri in patria causati principalmente dalla crisi economica, costituivano ancora il gruppo etnico più numeroso”, ci dice Bruno. E anche per una parte importante dei residenti la situazione individuale e collettiva era peggiorata economicamente e socialmente. Il malessere individuale era assai diffuso e questo si ripercuoteva anche sulle strutture assistenziali, molte volte incapaci di soddisfare le richieste di aiuto straordinario.
Lo sapevano i militanti delle associazioni socio-politiche italiane, quelle scolastiche e religiose, quante erano le difficoltà di integrazione della stragrande maggioranza degli immigrati italiani nella società svizzera. Solo nel mondo del lavoro c’erano rapporti soddisfacenti tra immigrati e colleghi svizzeri, ma con il pensionamento venivano a mancare gli incontri ed i colloqui quotidiani e si evidenziavano in poco tempo le nuove forme di isolamento. Il raggiunto pensionamento e il maggior tempo libero coincidevano purtroppo con l’incapacità di fronteggiare autonomamente questa mutata situazione. Anche gli acciacchi dovuti all’invecchiamento aumentavano l’esclusione e l’incapacità a gestire autonomamente la propria vita.
Per compiere, per esempio, normali funzioni come visite mediche o visite ospedaliere, erano necessari contatti con gli enti pubblici ecc., per i più era necessaria la presenza di un assistente sociale o di un traduttore.
Tutte queste domande di aiuto si riversavano naturalmente e soprattutto sulle associazioni di carattere socio-culturale e religioso. Tra le più sollecitate erano i Patronati, le Missioni Cattoliche italiane e il Comites, ovvero quei luoghi dove si parlava la lingua italiana. Erano questi enti che raccoglievano il malessere e cercavano in qualche modo di dare aiuto e sostegno, cercando di risolvere i problemi anche con petizioni e interventi a livello politico”.
Bruno, tu allora eri un membro Comites. Come siete arrivati a contattare la Fondazione Alterswohnen in Albisrieden?
Nelle associazioni l’interessamento divenne attivo soprattutto verso le case di cura per anziani pubbliche e private, generalmente molto costose e lontane dalle esigenze dei nostri pensionati italiani che si lamentavano per la mancanza di personale di lingua e cultura italiana, per il vitto e la tipologia degli alloggi. Di fatto all’interno di queste case di cura si sentivano isolati. Così su esplicita richiesta di un gruppo di attivisti del Comites e della Missione Cattolica venne organizzata una visita negli appartamenti gestiti dalla Fondazione Sawia. Si cercava di capire cosa si poteva fare di diverso per venire incontro a questa categoria di italiani anziani, come alleviare il disagio dell’incomprensione linguistica e culturale, come ridare loro dignità nella parte finale di una vita vissuta in gran parte con difficoltà.
Si profilava l’idea di appartamenti inseriti in un contesto abitativo di quartiere che riproducessero una sorta di continuità con il già vissuto. Non case o ricoveri con marcato senso ospedaliero e isolati dal contesto naturale delle vita in comunità. Ad accompagnarci in questa visita c’era l’allora direttrice, Liset Lämmler, una persona squisita che capì subito i nostri bisogni e i nostri obiettivi.
A questa prima visita seguirono presto ovviamente altri incontri per sondare la fattibilità di questo progetto. Incontri con il direttivo della fondazione, le trattative con la cooperativa di abitazioni che ha messo a disposizione gli alloggi, il dialogo con gli architetti che hanno progettato e organizzato i lavori per adattare gli spazi alle esigenze degli ospiti. Si è discusso perfino sui colori da dare alle pareti, che dovevano corrispondere a un’idea di “italianità”. È stato un processo veramente democratico.
Ambiente, lingua, cultura e cucina italiana erano la base su cui operare e il risultato da raggiungere e direi oggi che è stato essenzialmente raggiunto.
Questo percorso ha trovato resistenze?
Allora, si è parlato molto del fatto che la società non raggiungeva l’obiettivo dell’integrazione, isolando nuovamente queste persone anche in questa fase finale della loro vita. Evidentemente l’esercizio dell’integrazione non c’era mai stato o era stato concepito male pensando che bastasse un elementare e sgrammaticato insegnamento della lingua tedesca come diploma di integrazione o una superficiale tolleranza verso i bravi lavoratori italiani.
Gli avvenimenti hanno dato ragione a Sawia che, con la realizzazione nel 2006 dell’alloggio assistito OASI, ha scritto per questo Paese, e non solo, una pagina importante sulle relazioni umane e sulle possibilità di gestire diversamente, per uomini e donne, la fase finale della loro vita. Si è trattato davvero di un programma di integrazione sociale vissuta dentro un contesto abitativo di carattere più familiare, per offrire a questi anziani bisognosi una sorta di seconda casa, dove possono sentirsi, forse per la prima volta, a loro agio e protetti.
Simona Migliorini e Bruno Cannellotto