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21 November 2024
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STORIE di Gianni Farina

L’otto marzo della donna emigrata oltre la nostalgia Custode della cultura antica e della memoria

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Ho descritto la storia di una donna e madre nel tempo di un bip, lo sputnik in orbita attorno alla madre terra, che aprì l’era delle esplorazioni planetarie. Ho raccontato le tristezze dei bimbi nascosti nel buio delle camerette dalle lignee magioni, le ansie, i timori, le speranze e le aspettative di una madre che guarda al futuro, ricca di una tenace volontà tesa a superare le avversità di una vita povera e ingenerosa.

Chi mi parlò di quei fatti evidenziò come essi fossero testimonianza di un esteso fenomeno di cui erano protagonisti e vittime i membri delle famiglie addetti al lavoro stagionale nelle attività produttive della Confederazione Elvetica.

E ho quindi letto con attenzione e un filo di commozione, la testimonianza di Francesca Massarotto  nel suo “ Oltre la nostalgia” in cui racconta le vicende legate all’emigrazione trentina nel primo e nel secondo dopoguerra, in Belgio ed in Canada. Capirà il lettore che la testimonianza della scrittrice può essere chiaramente estesa all’emigrazione della diaspora italiana in Europa e nel mondo. Nel caso dell’emigrazione le immigrate si trovarono a sostenere condizioni di vita diverse tra paese e paese, tra continente europeo e nord americano.

Mentre in Europa, in Belgio, innanzi tutto, le donne incontrarono enormi avversità e furono destinate a vivere a fianco di uomini condannati alla silicosi, all’invalidità permanente e alla morte prematura nelle precarie condizioni economiche ed abitative dei distretti minerari, in Canada, al contrario, le difficoltà furono sormontate grazie ad una più rapida integrazione nella realtà sociale locale, favorita a sua volta dalla migliore posizione raggiunta dagli italiani nei primi insediamenti del grande paese nord americano.

La ricostruzione della giornalista veneta – condotta attraverso le testimonianze dirette delle immigrate, evidenzia le dure esperienze vissute  delle donne  nelle povere condizioni economiche delle realtà di partenza.

La donna – racconta Rossella – affrontò ogni sorta di disagio: dall’isolamento linguistico, alla sotto remunerazione, nonché ai gravi infortuni sul lavoro e il profondo isolamento sociale cui molte donne furono condannate tra le pareti domestiche di tante esperienze migratorie.

La pennellata della scrittrice sul tempo della donna che non è lo stesso dell’uomo.

L’uomo lavora, accetta i tempi della miniera, della fabbrica, della squadra di operai, impara nuovi gesti, i suoni di una nuova lingua, confronta idee diverse con nuovi compagni di lavoro.

La donna, dovendo restare lunghe ore tra gli spazi chiusi in casa, ha tempo per restare sola con se stessa e con i propri figli.

Ed è costretta – o sogna, direi!- a trasmettere ai figli tutto il suo mondo interiore.

In questo modo, la donna preserva il proprio passato e quello della propria gente e lo passa ai figli.

E senza accorgersene, compie un recupero storico di grande importanza: custodisce in tutta la sua autenticità, antica e profonda, cultura altrimenti destinata all’oblio. Questa storia di comprensione del sacrificio e dell’invisibilità dell’opera femminile, a tutto vantaggio della ricomposizione famigliare e della preservazione di tradizioni e valori antichi, emerge con straordinaria immediatezza nell’opera letteraria di Francesca Massarotto, a cui dobbiamo un riconoscimento ed un ringraziamento profondi.

Le donne giuliane, dalmate, o istriane furono le prime a raccontare la drammatica storia delle Foibe in cui perirono tanti loro uomini, vittime delle bestiale vendetta dei vincitori, perché l’eccidio criminale non fosse condannato all’oblio della storia. Un decennio fa, in visita alla comunità italiana in America latina, fui invitato alla serata delle associazioni del Friuli Venezia Giulia di Buenos Aires. Una serata di grande italianità, ricca della presenza di tanti giovani che si esibivano nel canto e nelle danze tradizionali della terra argentina del tango e dei gauchos. Tutto bello e gioioso e sino a quando l’orchestra si ammutolì e il coro, composto da giovanette, intonò un canto, per loro, persino più di un inno, a Trieste: “Fummo felici e uniti e ci han divisi Ci sorrideva il sole, il cielo e il mar Noi lasciavamo il cantiere Lieti del nostro lavoro E il campanon din don Ci faceva il coro Vola, colomba bianca, vola Diglielo tu Che tornerò…….”

Ancora una volta, le nipoti della donne emigrate avevano vinto l’oblio e preservato la memoria con l’Italia nel cuore.

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