Ma come sostenere la furia una donna per cui d’un colpo crollava il sogno di una vita? Quali parole escogitare? Come persuaderla alla rassegnazione? si chiedeva Costanzo, ben rendendosi conto di quanto sarebbe stato difficile affrontarla a viso aperto, malgrado l’oggettiva scusante della ragione di Stato. E nel chiederselo, si rimproverava la disinvoltura con cui si era arreso alle conseguenze della nomina, siccome, più che dell’abbandono o del calo dei sentimenti, era impensierito dal modo di comunicarlo a Elena! Certo: sotto l’indotta seduzione di Teodora non avvertiva uno strazio colossale per la separazione, e si lasciava persino accarezzare dall’idea di dare un erede all’impero con una sposa legittima e affascinante. Quella Teodora, la cui graziosa aura di modestia non estingueva il bagliore del ciglio, che si spingeva verso un’indefinita lontananza, forse già decifrando che le imprevedibili contaminazioni del loro seme, qualche decennio dopo, avrebbero generato Giuliano.
Ma ciò malgrado, non ancora travolto dalla nuova passione, Costanzo si ingegnava a stornare la frustrazione della compagna visionando l’esile prospettiva di indurla a seguirlo ad Augusta Treverorum. Forse non ne avrebbe lenito il disinganno, né i vagheggiati progetti di gloria, né il miraggio della scalata sociale: ma intanto Elena avrebbe potuto restargli vicino col figlio; e ne avrebbe tratto comunque vantaggi, se solo non avesse più aspirato, foss’anche legittimamente, a uno statuto che lui ormai non poteva più offrirle.
E proprio per prepararla a quella scelta, ma inabile a farlo di persona, adducendo l’impedimento causato dall’imminente spedizione in Britannia, Costanzo aveva affidato al tribuno Aurelio il compito di recare a Elena l’ostica severità di un ordine inoppugnabile. Ma anche all’amico, pur di non rivelargli la sorte di Valeria, si era visto costretto a tacere le vere ragioni, rinviando a più tardi una spiegazione. Per il momento altra era la precedenza: Aurelio non doveva avere tentennamenti emotivi, per prospettare il bene del ragazzo, insistendo sulle corde dell’abnegazione materna e temperando la lusinga della realizzazione. E così, senza dare troppe spiegazione al pur perplesso tribuno, Costanzo gli aveva affidato una lettera per Elena, nella quale le spiegava più distesamente le cause dell’impedimento.
Più tardi, però, quando ormai la cerimonia di incoronazione era imminente, vergognandosi di una viltà indegna in chi presto sarebbe stato cesare e un giorno imperatore, si era deciso a recarsi personalmente a Naissus, per prendere congedo, e, missione ancora più delicata, reclamare l’affidamento di Costantino. Elena, prevenuta della visita, si era preparata al confronto, ripassando gli argomenti in suo possesso. E aveva percorso parecchie tappe dello scontro: dall’aggressione all’intimidazioni, dall’implorazione alle accuse, dal vituperio alla preghiera, dall’infamia al deliquio, dall’abisso della perdita alla consuetudine del possesso. Aveva tentato di ferirlo col rancore dell’amante ingannata; aveva evocato lo spetto della prostituzione, i veleni della beffa, il languore dell’indolenza, il gorgo della disperazione, senza tralasciare l’esaltata boria della profezia. L’aveva incriminato, supplicato e ingiuriato: rinfacciandogli la promessa sussurrata nell’intimità e vilipesa dalla ragion di stato; gli aveva ricordato le tenerezze sillabate per infamia o viltà.
Ma infine, davanti a un Costanzo confuso, che maldestramente ribadiva la genuinità del suo amore, e stragiurava che pur sposando un’altra mai l’avrebbe estromessa dai suoi affetti, Elena, incapace di scorgere alcun nesso tra l’impero e la loro storia, e stupendo che la salvezza di Roma dovesse comportare la perdita del suo uomo, solo nell’interesse del figlio e nel conforto della provvidenza aveva trovato la forza di cedere. L’unica decisione ragionevole riguardava Costantino. Che sarebbe accaduto di lui? Avrebbe dissolto nell’oscurità di Naissus una carriera promettente? Costanzo era venuto appunto a prenderlo per condurlo ad Augusta Treverorum: confidando che la compagna, più che la voce dell’affetto, ascoltasse quella dell’opportunità. E Elena, solo speculando che le aspettative di un giorno avrebbero potuto riacquistare un senso, e gli anni di attesa non sarebbero evaporati nel disinganno, era riuscita a ritrattare il rifiuto. Costanzo l’avrebbe introdotto nel cuore del potere, e lo stesso Diocleziano avrebbe reclamato il ragazzo a Nicomedia, se il padre fosse salpato per la Britannia. Ma se fosse rimasto a Naissus, avrebbe visto svanire ogni prospettiva, quel ragazzo che prometteva grandi cose. La sua vita non poteva essere spesa sui viottoli di un borgo, e nemmeno sugli scranni, forse più attraenti ma ugualmente sterili, del foro o del senato. Costantino, sulle orme del padre, sarebbe diventato un condottiero, un uomo d’armi e d’azione; e lei che tante volte aveva trepidato per il suo uomo, si era da tempo preparata al giorno in cui avrebbe duplicato la preoccupazione per quel figlio avventuratosi per le vie del mondo, a conseguire la palma della gloria.
Insomma, per Costantino si trattava di scegliere tra la sicurezza dell’oscurità e una partenza gravida di insidie e promesse. E finalmente, affranta per il sacrificio che pure aveva considerato, consapevole dell’inutilità di qualsiasi manovra, e perdente di sapere che non avrebbe compiuto la vendetta ventilata, Elena si era piegata, solo chiedendo di appartarsi per le ultime raccomandazioni a quel figlio in cui già brillava la determinazione del capo. E quando poi era ricomparsa con le occhiaie asciutte, Costanzo, che ignorava il tenore del congedo, aveva pensato che il ragazzo doveva aver trovato parole ben più consolatorie di quelle che Elena aveva invece avuto per lui.
“Ti auguro ogni successo e ogni bene, Costanzo,” gli aveva digrignato. “La mia fede non mi dà il diritto di maledire, e non lo farò. Ormai mi resta solo il silenzio e una speranza segreta. Ed è per quel futuro che vivrò. Ma tu non cercarmi, ed evita di prendere informazioni sul mio conto. Per me tu non esisti più, capisci? E voglio che anch’io sia sparita per te!” Erano state quelle le ultime parole di un grande amore, non diversamente da quanto avviene ogni giorno, sotto ogni latitudine, e pertanto in qualche modo ordinarie. Nessuno dei due realizzava, però, nel dirle e nell’udirle, che non si sarebbero visti mai più.