Il 28 settembre è la data, in calendario, del discorso del premier al Parlamento e della successiva discussione sui cinque punti del programma di fine legislatura alla fine dei quali ci sarà la fiducia. Il punto, sembra, non è se ci sarà o meno la fiducia, ma chi e quanti saranno a votarla.
Il premier considera un “vulnus” la nascita di Futuro e Libertà (Fli) di Gianfranco Fini, a tal punto che nell’ultimo suo intervento a Taormina all’assemblea della Destra ha parlato di un “indebolimento” dell’Italia in Europa proprio nel momento in cui il nostro Paese era riuscito ad affrontare meglio degli altri la crisi economica.
Però, gli apparenenti a Fli hanno più volte detto che loro sono gente di destra, non farebbero mai ribaltoni per favorire la sinistra, che sarebbe da irresponsabili far cadere il governo, che hanno ben presente la necessità di assicurare al premier uno scudo giudiziario per tutta la durata dell’incarico e che non c’è dunque nessun problema ad assicurare la fiducia al governo di cui si riconoscono parte integrante. Questo, evidentemente non basta al presidente del Consiglio che non vuole dipendere da Fli.
Proprio perché si tratta di una terza gamba, Berlusconi, però, sa che, a causa delle differenze di visioni politiche e dei conflitti personali, Fli potrebbe esercitare un forte potere di condizionamento e, in caso di disaccordo, rappresentare una chiara minaccia per la tenuta del governo. Ecco perché una volta incassata la scelta di campo di Fli sta facendo di tutto per assicurarsi una maggioranza più ampia, che tenga il governo al riparo da eventuali imboscate di falchi finiani. Insomma, il premier sta tuttora lavorando per avere una maggioranza autosufficiente, anche senza i finiani, di cui teme manovre di fuoriuscita dalla attuale maggioranza.
In un primo momento, aveva accennato ad una maggioranza allargata, con la formazione di un nuovo gruppo parlamentare di “responsabilità nazionale”, capeggiato dal repubblicano Francesco Nucara e comprendente un gruppo di deputati siciliani dell’Udc e liberaldemocratici; poi, da questo costituendo gruppo parlamentare ci sono state defezioni, in quanto i dirigenti dell’Udc sono intervenuti su alcuni indecisi e li hanno convinti a non fare il passo, per cui, non raggiungendo la soglia di venti deputati non è possibile la costituzione di un gruppo autonomo. Fallito il nuovo gruppo, sono rimasti i singoli parlamentari che hanno deciso comunque di appoggiare il governo.
All’accusa della compra-vendita, il premier ha risposto che non può trattarsi di compravendita in quanto tutti quelli che appoggeranno l’Esecutivo sono stati eletti con i voti del Pdl e che comunque le offerte di schieramento non possono essere tacciate di compravendita quando si tratta di appoggiare un governo di centrodestra e di “scelte coraggiose a favore della democrazia” quando invece si trattava di appoggiarne uno di centrosinistra.
Dunque, la fiducia dovrebbe essere certa. Se sarà circoscritta alla maggioranza tradizionale (Pdl-Lega-Fli, più ex deputati Pdl confluiti nel gruppo misto e ora tornati all’ovile) o a una maggioranza allargata per apporti esterni (qualche Udc in rotta con il loro partito), questo non è dato sapere ora, anche perché il passaggio dall’uno all’altro schieramento non è ancora finito e potrebbe riservare qualche sorpresa.
Di certo, comunque, il documento promosso da Veltroni e appoggiato da 75 parlamentari del Pd, che ha creato una bufera all’interno del maggior partito dell’opposizione, da una parte scoraggia Fini dal tentare colpi di mano, dall’altra ha mostrato la debolezza del Pd stesso come forza alternativa, almeno per ora. Veltroni ha dichiarato che non intende dividere il Pd, ma dargli un’anima, una prospettiva, che così com’è ora non ha, dicendo chiaramente che il candidato premier non potrà essere Bersani.
Veltroni, negli ultimi giorni, ha messo la retromarcia sulla costituzione di gruppi parlamentari autonomi, sul modello di Fini, ma non ha nessuna intenzione di desistere dal progetto, che è quello di un “partito riformista a vocazione maggioritaria”, che guidi forze che aderiscono al progetto politico.
Quindi no all’alleanza con i comunisti – ciò che stava facendo Bersani e che ora non potrà più fare altrimenti Veltroni uscirebbe dal partito – e sì ad alleanze con forze compatibili, anche se non ha specificato quali.
Il Pd è a un bivio. Se Bersani non viene a patti, pesa la decisione di Veltroni di “procedere” e quindi di ridurre il Pd ad un partitino di sinistra impotente; se Bersani viene a patti con Veltroni, sarà un partito rinnovato nelle alleanze e negli obiettivi e che necessariamente ha bisogno, per decollare, di tempi lunghi. In questo senso, ha ragione Bersani quando dice che Veltroni ha fatto un regalo a Berlusconi.
Con un Pd riformista e a vocazione maggioritaria, l’ala più a sinistra verrà tagliata, per far posto a temi e alleanze più moderate, ma le forze centriste e moderate o devono costituire il secondo piede (il famoso centro moderato con l’aggiunta eventuale di un Fini formato bonsai) o per necessità di cose saranno fagocitate da un Pd maggioritario, quindi Casini e Rutelli sarebbero ridotti a ruoli di appoggio, che è quello che loro non vogliono, pena la loro marginalità. Resta in ogni caso il nodo Di Pietro, con cui Casini e Rutelli non andrebbero a bere nemmeno un caffè.
Insomma, quella di Veltroni è una prospettiva non facile, tutta da costruire, comunque interessante, perché torna a semplificare il panorama partitico. Per ora, però, ha solo bloccato il tentativo di una nuova Unione perseguita da Bersani e da D’Alema con l’unica differenza di sostituire Prodi con Casini.
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