Il percorso delle riforme si fa più accidentato ma il traguardo non è perso di vista e comunque pare che non ci sia il rischio che tutto salti per impuntature di tipo personale.
La legge sulle intercettazioni, per ora, è il vero pomo della discordia. Appena approvata al Senato dopo un accordo all’interno della maggioranza, il testo non sarà approvato alla Camera così com’è. Ad opporsi è la minoranza di Fini, il quale, dopo aver firmato l’accordo, in realtà se lo rimangia e, sulla scia delle critiche delle opposizioni al provvedimento, ha dichiarato che sono necessarie altre piccole modifiche per evitare che il presidente della Repubblica non lo firmi o si dia esca a chi sostiene che ci sono profili di incostituzionalità.
È uno strano Paese l’Italia. In realtà la legge che vieta la pubblicazione delle intercettazioni, per intero o anche per riassunto, fino alla conclusione delle indagini preliminari – quindi lo stesso testo attualmente alla Camera – fu approvata nel 1988 (Nuovo codice di procedura penale, art. 114). Solo che i magistrati che dovrebbero garantire il segreto degli atti giudiziari – depositati, bisogna ricordarlo, presso i loro uffici – non hanno mai perseguito chi li divulga, alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale. Questo per almeno due motivi fondamentali. Il primo è che spesso sono proprio loro la gola profonda che rivela ai giornalisti le notizie, addirittura prima che la comunicazione arrivi agli indagati. O sono loro o i loro collaboratori. Il secondo è che non vogliono, perché con la pubblicazione degli atti giudiziari sui giornali compaiono anche i nomi dei magistrati che così acquistano subito notorietà. In ogni caso, sono i primi che trasgrediscono la legge e sono quelli che non applicano le regole.
Dunque, la legge attuale, in realtà, preso atto di questo andazzo, punta sulle pene ai giornalisti che pubblicano notizie coperte da segreto e sugli editori che lo permettono e punta anche su una limitazione delle intercettazioni stesse. Di qui l’accusa di mettere il bavaglio alla libertà di stampa, trascurando di dire che chi non applica la legge del 1988 non solo commette reato, ma espone chi non c’entra con i reati (ma è intercettato e viene citato sui giornali) alla gogna mediatica.
I termini della questione riguardano alcuni cambiamenti come la proroga da tre a sette giorni quando termina la scadenza dei 75 giorni durante i quali sono ammesse le intercettazioni, la riduzione delle pene per chi utilizza registrazioni private all’insaputa degli interessati e modifiche di questo genere. Alla fine la maggioranza sembra aver ceduto all’impuntatura di Fini ed è disposta ad accogliere modifiche alla Camera, a condizione che si faccia presto, perché di questo tema se n’è discusso fin troppo.
L’altro argomento scottante è la manovra correttiva. Finora al Senato sono stati presentati 2500 emendamenti, per più della metà dalle opposizioni e per il resto dalla stessa maggioranza. Giulio Tremonti lo ha ripetuto in ogni sede: saranno possibili piccole modifiche tecniche, ma la sostanza dovrà restare immutata. La manovra italiana è stata approvata dal Fmi e da tutti gli organismi europei.
Probabilmente le modifiche saranno il limite di 65 anni per la pensione alle donne impiegate dello Stato, come richiesto dall’Ue, l’abolizione della norma che prevede di innalzare dal 74% all’85% il limite per ottenere il diritto all’assegno di invalidità, lo spostamento di sei mesi per il pagamento delle tasse in Abruzzo, la salvaguardia delle farmacie dei centri rurali e al di sotto dei 5 mila abitanti. Dopo di che, sarà posta probabilmente la fiducia.
Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha lanciato otto idee di modifica della manovra, ma dai riassuntini apparsi sui giornali si tratta di proposte generiche o di slogan, come quella di diluire l’andata in pensione delle donne a 65 in cinque anni. Su questo punto, l’Europa è tassativa: la normativa dovrà essere applicata entro il 2012. Oppure quella di ridurre i tagli alle Regioni: più che ridurre i tagli bisognerebbe aumentarli, per poter diminuire gli enormi sprechi.
L’atto del governo che ha suscitato perplessità è stata la nomina di Aldo Brancher, leghista proveniente dalla Fininvest, a ministro per l’attuazione del federalismo. Tremonti ha definito la nomina “low cost”, cioè senza spese (ministro senza portafoglio). La domanda di molti dell’opposizione e anche della maggioranza è: c’era necessità di un ministro visto che di federalismo si occupano già Roberto Calderoli (ministro per la Semplificazione), Umberto Bossi (Riforme) e Raffaele Fitto (Affari con le Regioni)? Le risposte sono almeno tre. Aldo Brancher è il tramite fidato del premier tra la Lega e il Pdl, per cui il messaggio è di tranquillizzare la Lega sul fatto che il federalismo sarà attuato; il neo ministro dovrà essere sentito dal magistrato per la questione Antonveneta e il premier ha voluto metterlo ai ripari da un eventuale rinvio a giudizio; l’attuazione della legge sul federalismo è cosa seria e prevede una serie di decreti legislativi con scadenze precise, per cui c’è necessità di qualcuno che si occupi specificamente della materia. Entro il 30 giugno, infatti, il ministro dell’Economia dovrà presentare la relazione sui costi del federalismo fiscale; tra il 7 e il 15 luglio il Consiglio dei ministri dovrà approvare lo schema dei 5 decreti legislativi di attuazione: fabbisogni e costi standard, autonomia impositiva di comuni e province e Roma capitale; entro il 31 di agosto si dovrà tenere la Conferenza Unificata di Stato, Regioni ed Enti locali per intesa sui decreti; a settembre ci dovrà essere la presentazione dei 5 decreti alla Commissione Bicamerale sul federalismo che, entro 60 giorni, dovrà fornire il suo parere; a metà novembre dovrà tenersi il Consiglio dei ministri che dovrà approvare definitivamente i 5 decreti legislativi.
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