Fino a qualche anno fa in Italia c’era un patto noto a tutti – anche se non scritto – tra le grandi industrie private e di Stato, in modo particolare la Fiat, e i Sindacati: questi ultimi, grazie alla copertura delle leggi al tempo approvate su loro sollecitazione, facevano quello che volevano in fabbrica. Le grandi fabbriche, da parte loro, scaricavano le loro perdite sulla collettività, con la cassa integrazione e con i contributi che i vari governi concedevano. Questo patto non scritto era benedetto, come si può ben capire, dal tacito consenso dei governi che si sono succeduti, i quali a loro volta chiudevano gli occhi per non subire l’offensiva dell’opposizione del Pci, con proteste, manifestazioni di piazza e scioperi continui. È evidente che un sistema del genere non poteva durare: le fabbriche erano in perdita e finivano o per chiudere o per sopravvivere con le sovvenzioni di Stato, i loro prodotti non erano competitivi sul mercati e frenavano l’economia del Paese e si creava un’occupazione gonfiata, soprattutto nelle industrie di Stato, che finiva per essere un peso per la fabbrica stessa. Questa situazione era sostenuta da una legislazione che garantiva potere ai Sindacati in fabbrica, illicenziabilità di fatto e appiattimento verso il basso in assenza di meritocrazia. I primi a rendersene conto, negli anni Ottanta, furono i quarantamila cosiddetti camici bianchi che protestarono contro il potere sindacale a Mirafiori, ma gli aiuti di Stato e la forza di piazza dei Sindacati e dell’opposizione in sostanza spensero la carica riformatrice contenuta in quella protesta che in sostanza diceva al Sindacato: lasciateci lavorare.
A cambiare una legislazione per molti versi obsoleta ci provò l’attuale presidente del Consiglio, negli anni 2001-2002, ma gli scioperi e le manifestazioni oceaniche bloccarono il tentativo. Due fattori, nel frattempo, sono intervenuti a modificare il quadro della situazione precedente. Da una parte, l’Europa ha bloccato gli aiuti di Stato, quindi o l’industria guadagnava sul prodotto o chiudeva, dall’altra la crisi economica mondiale, che ha accelerato il fenomeno precedente. Tutti hanno capito che se in fabbrica non si lavora o si danneggia la produzione o si sciopera per diversivo non si può andare avanti; tutti hanno capito che se si ruba nei bagagli agli aeroporti o si timbra e non si va in ufficio e poi il magistrato del lavoro reintegra nei posti di lavoro i ladri o i fannulloni, è un danno all’economia e alla collettività: solo la Fiom non vuole capirlo, per non perdere il potere politico di condizionamento. Ecco, l’impuntatura di Marchionne è tutta qui. Dice: noi vogliamo investire 20 miliardi in Italia, per creare occupazione e ricchezza, ma non si può andare avanti con scioperi, imposizioni e ricatti vari, perciò o si cambia mentalità o chiudiamo e sarà un danno per tutti. Con un invito: a siglare un nuovo patto sociale. L’ha capito il presidente della Repubblica, che lo ha invitato ad accettare le sentenze, ma si è fermato lì quando Marchionne ha detto che pagava i tre operai che avevano boicottato la produzione e che erano stati reintegrati dal giudice, ma che gli vietava di lavorare; e lo hanno capito la stragrande maggioranza dei lavoratori che sanno che ci sono sì i diritti, ma ci sono anche i doveri. Vedremo se nelle prossime settimane i sindacalisti più irriducibili saranno ridotti alla ragione o se persisteranno nell’atteggiamento da perenne “lotta di classe”. È certo che con la demagogia non si crea né occupazione né ricchezza.
Se non lo capiranno saranno i lavoratori stessi a farglielo capire, perché con le fabbriche chiuse non si lavora e se non si lavora è facile intuire il resto.
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