Nel martedì dell’Urbe, riemerge una storia
È un martedì di ogni settimana. Nulla di nuovo sotto il cupolone. La città vive la sua eterna, disordinata quotidianità. È incredibile come l’Urbe – parlo di Roma, naturalmente- sappia estraniarsi da ciò che accade nel mondo per guardare dentro se stessa e riscoprire pezzi del suo passato che la fanno assente ed eterna. Assente di fronte ai problemi dell’immigrazione di massa, su cui l’Europa, Italia compresa, cercano, disordinatamente, di dare una risposta comune. Assente nel contesto della battaglia politica per il rinnovo dell’amministrazione capitolina, dopo il naufragio dell‘ avventura del sindaco medico, Ignazio Marino. La città eterna ne ha viste troppe, nel corso della sua storia millenaria, dai cesari ai papi, con l’intermezzo di improvvisati regni sabaudi e tribuni politici dall’ incerto avvenire, per interessarsi a qualcosa che riguardi il suo futuro, prossimo o remoto. In fondo, tutto ciò, è l’emblema di una romanità di cui è permeato il suo popolo: dal borgataro, sino al borghese degli alti palazzi capitolini.
Parlano, ognuno di loro, il dissacrante romanaccio. Da evitare, fuori porta, per non incorrere nei fulmini della vendetta. Ed è così che, l’agitarsi dei nanerottoli per la candidatura a sindaco della capitale, è ridotto a sfoggio di battutacce sul passato, tale o presunto, di ogni candidato. Occorrerebbero idee per risollevare la città dal marasma in cui vegeta, inerme e rassegnata. I candidati puntano le rispettive virtù personali nella gara del dileggio dell’altrui competitor. Ho ascoltato il cicaleggio di un candidato nella quotidiana intervista ai mass media locali. Il suo dire, ripetuto più volte perché potesse entrare nell’immaginario collettivo. Programma per l’Urbe della sua futura amministrazione. Mi impegno perché la città si riappropri della sua bellezza, sia pulita, risanata e onesta, abbia il trasporto pubblico di superfice e la metropolitana funzionanti, venga liberata dagli straccioni e dagli immigrati che la deturpano. Mancava – cito a memoria – l’emendamento della “Dichiarazione d’indipendenza americana” che riconosce a tutti gli uomini – inteso come genero umano – il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità.
E c’è persino il pericolo che un simile gaglioffo possa, a giugno, divenire il sindaco della capitale, tanto il dibattito politico è scaduto, e la città oramai rassegnata alla sua mediocrità. Ritorno al Martedì iniziale per segnalare l’intervento, in parlamento, di un deputato romagnolo in appoggio alle iniziative per rendere giustizia ad un grande dello sport italiano: Marco Pantani. Parte, l’onorevole, dalle notizie di stampa che accusano la Ndrangheta di aver agito per falsificare le ampolle del sangue del grande scalatore, provocandone la squalifica e l’abbandono del Giro d’Italia, il 5 giugno del 1999, a Madonna di Campiglio. Alla vigilia di una nuova grande impresa sportiva e del trionfo finale, dal passo del Gavia al muro del Mortirolo, il volo del pirata, così detto per la bandana che proteggeva la lucida pelata, venne fermato dalla camorra che, si dice, avrebbe investito più di tre miliardi delle vecchie lire sulla sconfitta dell’allora maglia rosa. Se ne parlò per anni, anche per le confidenze del solista del mitra, Renato Vallanzasca, ai suoi coinquilini nelle patrie galere.
Mamma Tonina, a differenza del padre Ferdinando, muto e rassegnato, ha strenuamente lottato per la riabilitazione sportiva e umana del figlio. Forse, e dico forse, siamo alla vigilia della svolta che ristabilisce la verità su una delle pagine più nere della nostra storia sportiva.Lo dobbiamo all’uomo, al campione che aggrediva le montagne alla velocità dell’obice di un cannone sparato contro il nemico annidato tra le rocce delle vette dell’Adamello. Lo dobbiamo ai milioni di sportivi – gli indiani appolaiati tra i massi- in attesa dei loro eroi sulle strade del giro o del tour.mLo dobbiamo ai ragazzi che, avuta in premio la prima bicicletta, sognano di ripetere le imprese di Coppi, Bartali, Merckx, Gimondi e Pantani.mLo dobbiamo alla sua famiglia, a mamma Tonina e papà Ferdinando.E lo dobbiamo a lui, il pirata che inseguì un sogno: assalire le vette per essere il più grande, interrotto dalla perfidia e dalla cattiveria umana. Marco Pantani e la montagna: Dio li fa e poi li accompagna.