Il centrodestra si riforma al Nord come al Sud e torna a sperare in un pareggio al Senato
Tra Lega e Pdl, fino a dieci giorni fa, si respirava aria di rottura per una serie di veti posti in parte dal Carroccio e in parte dal Pdl. Il problema di quest’ultimo era che Roberto Formigoni, l’ex presidente della Regione Lombardia sfiduciato dalla Lega, voleva appoggiare Albertini, ex sindaco di Milano e deputato europeo Pdl, contro la candidatura Maroni in Regione. Il che vuol dire che poteva creare una emorragia di voti verso Albertini, il quale, tra l’altro, voleva che il Pdl abbandonasse la Lega e si orientasse verso Monti che, a sua volta, aveva voltato le spalle al Pdl preferendo Udc, Fli e Italia Futura. Insomma, il Pdl se voleva l’alleanza con la Lega, doveva cedere a Maroni la presidenza della Lombardia e neutralizzare Albertini o quantomeno Formigoni che lo appoggiava.
La Lega, però, poneva condizioni capestro al Pdl in cambio dell’alleanza. Primo, votare Maroni alla Regione Lombardia; secondo, Berlusconi non poteva essere candidato premier, perché la Lega non lo avrebbe votato. Si stava andando verso la rottura che avrebbe significato la sconfitta sicura di Maroni e la perdita quasi sicura del Veneto e del Piemonte perché il Pdl avrebbe, per ritorsione, ritirato l’appoggio a Cota (Piemonte) e a Zaia (Veneto), tutti e due leghisti eletti con i voti del Pdl. Il braccio di ferro tra Lega e Pdl è durato fino ad un momento prima della rottura, quando è prevalso il “matrimonio d’interesse”. L’accordo prevede che le tasse nel Nord rimangano ai Comuni per il 75% e il 25% a Roma, che Maroni è il candidato unico del centrodestra alla regione Lombardia e che Berlusconi è capo della coalizione ma non significa che debba essere anche premier in caso di vittoria (poco probabile). Con quest’accordo di coalizione si è riformato l’asse Pdl-Lega, Albertini ha mantenuto la candidatura alla Lombardia ma è uscito dal Pdl entrando nella lista Monti ma non è più appoggiato da Formigoni, rientrato nel Pdl.
Ecco, questa è una delle novità politiche della settimana scorsa, che cambia, relativamente, lo scenario nel centrodestra. I vantaggi sono quasi tutti della Lega che avrà, in caso di vittoria, la Lombardia e continuerà a mantenere il Veneto e il Piemonte. Il Pdl, con i suoi voti e quelli della Lega, potrebbe raggiungere una percentuale del 26-28%, un traguardo che non gli permetterebbe di vincere le elezioni, ma potrebbe consentire alla coalizione di ottenere il premio di maggioranza al Senato in alcune regioni chiave molto popolose, in modo tale da sperare in un “pareggio” al Senato. Se così dovesse essere, la vittoria di Bersani, certa, sarebbe monca. Il Pd dovrebbe o ritornare alle urne oppure venire a compromessi con un governo allargato. Tutto questo, evidentemente, a due condizioni. Primo, che la lista Monti non giunga seconda (possibilità che oggi, in base ai sondaggi, non c’è); secondo, che il centrodestra conquisti tutte o quasi quelle regioni dove è nutrito il numero dei senatori e quindi il premio di maggioranza, e cioè la Lombardia, la Campania, la Sicilia, il Veneto e il Piemonte. A titolo di cronaca, il Pdl ha siglato l’alleanza a Nord con la Lega, a Sud con una serie di formazioni tipo Grande Sud di Gianfranco Micciché, il Movimento per l’autonomia di Lombardo e formazioni minori.
La sfida del Pd è dunque raccolta dal Pdl e dai suoi alleati, anche se, come abbiamo avuto modo di scrivere, se il Pdl arrivasse a conquistare un 24% da solo e un 28-30% con gli alleati potrebbe ritenersi soddisfatto ed esercitare dall’opposizione quella marcia che potrebbe permettergli di rilanciare l’area di centrodestra con un nuovo leader nella sfida fra cinque anni. Insomma, noi riteniamo che il Pd abbia già in tasca la vittoria alle prossime politiche, anche perché la lista Monti non ha avuto, finora, quel favore popolare su cui lui stesso e i suoi alleati contavano. Monti come personaggio politico e come personaggio nuovo si è collocato attorno all’8-9 per cento, a cui si aggiungono i voti dell’Udc (4%), di Fli (1%) e di Italia Futura (2-3% circa). Se questa prospettiva sarà confermata dalle urne, Monti potrà allearsi con il centrosinistra e rafforzarlo alla Camera – quindi allearsi con una percentuale più consistente di quella, misera, di Casini – ma non essere determinante al Senato, per cui vale il discorso del pareggio al Senato, o almeno della sua possibilità sulla carta.
L’altro fatto importante che è mediatico ma soprattutto politico è il rilancio di Berlusconi grazie alla sua performance alla trasmissione di Santoro. Poteva essere la sua uscita di scena, trascinando con sé anche tutto il centrodestra, invece l’uomo ha tenuto testa a Santoro e a Travaglio, a Giulia Innocenzi e a Luisella Costamagna, l’ammiraglia di Servizio Pubblico che doveva affondare la navicella di Berlusconi e che invece è stata contrastata e a tratti ridicolizzata dall’ex premier, che al termine della trasmissione ha “sentito” il rumore della rimonta. Che, se ci sarà, sarà a scapito di Monti. Non solo. Bersani ha polemizzato con Monti ma ha anche detto che potrebbe essere un futuro alleato. Berlusconi, di fronte a questa prospettiva, se davvero “crescerà, ha proposto lui l’alleanza a Bersani. Insomma, il Cavaliere, dato per morto, ha mostrato che è ancora vivo e vegeto.