In una trasmissione televisiva (Che tempo che fa) l’amministratore delegato (ad) di Fiat, Sergio Marchionne, ha fatto due dichiarazioni talmente lapidarie che sembrano ultimative. La prima è che dei due miliardi di euro di utili di Fiat nel 2010 “neanche un euro viene da stabilimenti nazionali” e la seconda è che “senza l’Italia faremmo di più”, per dire in sostanza la stessa cosa, e cioè che lavorare in Italia, per una grande industria, è difficile.
Non vogliamo entrare nel merito degli affari Fiat, che in passato quando le cose andavano male ha scaricato le perdite proprio sulla collettività italiana e quando andavano bene ha incassato gli utili, però la constatazione di Marchionne poggia sul solido. Molte imprese italiane vanno all’estero perché il lavoro costa di meno, si produce a prezzi minori e a pari qualità e dunque portare avanti un’impresa in Italia è arduo e si rischia il fallimento. Del resto, c’è la controprova: sono pochissimi coloro che dall’estero investono in Italia, chi ci ha provato se ne è andato perché il poco funzionamento della giustizia, la facilità con cui si fa sciopero, la scarsa produttività e tutta una serie di ostacoli giuridici e sindacali scoraggiano anche i meglio intenzionati. Per cui, quando la crisi era al suo apice e si è dovuto stringere la cinghia, si è detto che dalle avversità poteva nascere un’opportunità, quella di lasciarsi dietro le spalle quel sistema Italia che faceva acqua da tutte le parti, con l’assistenzialismo spinto, con gli sprechi enormi della politica e delle amministrazioni i locali nella gestione dei servizi e con i livelli di corruzione altissimi negli appalti dei lavori pubblici, eccetera, eccetera.
Invece, a parte Tremonti che ha tenuto la barra dritta nel sostenere la necessità del rigore e di tagliare ciò che poi andava a finire in sprechi, la politica sta dando uno spettacolo indecente. In un Paese civile, lo scudo giudiziario per il premier non dovrebbe suscitare nessuna opposizione, anche perché primo si tratta di sospensione dei processi, non di soppressione, poi perché le garanzie sono per l’incarico, non per le persone, quindi per tutti i presidenti del Consiglio che verranno. Fare il tira e molla da due anni e mezzo sta diventando insopportabile. Bene farebbe il premier a ritirare il Lodo Alfano e dedicare risorse alla gestione dei problemi e rinsaldare l’unità della maggioranza attorno a progetti validi. La sua responsabilità, a questo punto, diventa chiara, aggravata, ci sembra, da uno staff che presenta provvedimenti che si rivelano lacunosi. Ma c’è anche un problema di chiarezza politica, che riguarda il livello di responsabilità della classe politica in generale.
Appena dopo la fiducia, ci si aspetta responsabilità da parte di chi l’ha incassata e di chi l’ha data, invece assistiamo al solito duello, che ormai è chiaro che finirà solo con le elezioni e la sconfitta dell’uno o dell’altro. Arrivare, come in questi giorni, a fare il giro d’Italia per strappare questo o quel consigliere regionale al partito avversario o alleato, dimostra solo che più che avere a cuore le sorti del Paese, si pensa preminentemente alla bassa cucina politica e a fomentare il caos. Da parte delle opposizioni, lo spettacolo non è meno deprimente, con il pensiero fisso a cambiare la legge elettorale facendo passare per interesse nazionale quello che è un ragionamento e un vantaggio di parte o usando sistematicamente l’insulto e la delegittimazione come arma di dialettica e di lotta politica. A questo punto, data la disgregazione della maggioranza, di cui una parte gioca in accordo con l’opposizione, meglio sarebbe che il premier dichiarasse l’impossibilità di governare nel caos e rimettesse il mandato. Almeno cadrebbe a testa alta, mentre così si va lentamente verso lo sfascio che molti vogliono deliberatamente per accusare poi lui di averlo creato.
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