Colpo di scena sul versante delle candidature a Mister Pesc dell’Unione Europea. Il ministro degli Esteri inglese, David Milliband, l’uomo forte del partito socialista europeo (Pse), ha annunciato la rinuncia alla sua candidatura. Ciò ha rilanciato le quotazioni di Massimo D’Alema, che in partenza aveva poche chances di essere indicato come candidato numero uno.
Ricordiamo che la candidatura tocca al Pse ma che per l’investitura è necessario l’appoggio del governo del Paese di provenienza. Con la rinuncia di Milliband la candidatura di D’Alema – uomo ritenuto con “un’esperienza adeguata” essendo stato premier, seppure per un solo anno, e ministro degli Esteri durante i due anni del governo Prodi – è stata suggerita all’unanimità dal Pse. Massimo D’Alema ha l’appoggio del premier Silvio Berlusconi, che si è già attivato presso le Cancellerie di tutti i Paesi membri, ma i giochi sono ancora aperti.
Il premier inglese Gordon Brown ha motivato la rinuncia del suo ministro degli Esteri con la candidatura di Tony Blair a candidato alla presidenza. Le carte di Gordon Brown sono tutte puntate su Blair e tutto lascia pensare che s’impunterà. Ciò, però, riaprirebbe il quadro delle candidature e sarebbe un ostacolo per D’Alema, il quale deve a questo punto solo sperare che la candidatura Blair non passi.
Se, infatti, passasse, essendo Blair laburista, automaticamente il posto di ministro degli Esteri dell’Unione Europea non potrebbe toccare ad un altro candidato proposto dal Pse, perché in questo caso si verificherebbe che un partito minoritario avrebbe tutte e due le maggiori cariche, il che è inimmaginabile. Né il fatto che Blair sia nominalmente laburista e non socialista o comunque un socialista moderato potrebbe giocare a favore di tutte e due le cariche maggiori a uno stesso partito. L’Italia, si sa, in caso di candidatura Blair a presidente dell’Unione non gli farebbe mancare il suo appoggio, ma nell’Unione non c’è solo l’Italia.
Dunque, l’investitura di D’Alema è più vicina, ma non per questo più certa. Bisogna aspettare che un accordo globale si trovi, all’interno di ciascuno dei due maggiori partiti, il Ppe e il Pse, e tra di loro. Se ne riparlerà tra giorni. Intanto, è iniziato il viaggio di Obama verso i Paesi intorno al Pacifico. Il Presidente americano, partito il 13 novembre scorso verso la prima tappa del viaggio, il Giappone, rilancerà la politica verso la regione dell’Asia e del Pacifico, che è grande e che comprende il Giappone, l’Australia, la Corea del Sud – Paesi amici ed alleati da tempo – ma anche la Cina (con cui gli Usa hanno costituito il G2) e i due Paesi riluttanti ad una politica di distensione, cioè la Corea del Nord e la Birmania.
È interesse dell’Australia mettere l’accento sullo spostamento dell’interesse dell’amministrazione Usa dall’Europa ai Paesi del Pacifico. Questo interesse è evidente, ma è difficile parlare di un’Europa che perde d’importanza agli occhi del presidente Usa. La realtà è che Obama ridiscuterà con i Paesi asiatici i termini dell’alleanza vecchia (Giappone) o di quella nuova (Cina), ma è anche vero che li discuterà all’insegna della pari dignità, come ormai sappiamo. Ciò comporta che aprirà alle rivendicazioni del Giappone (ridiscutere i termini dell’alleanza vecchia di sessant’anni), ma senza troppo concedere.
Non ci sarà l’abbandono della base americana di Okinawa, forte di 10 mila marines, ma potrà esserci uno spostamento sull’isola di Guam, a condizione che le spese vengano sostenute dal Giappone. Obama, ad un giornalista che lo invitava a chiedere scusa per le bombe su Hiroshima e Nagasaki, ha reagito eludendo la domanda. Insomma, ridiscutere per bilanciare meglio le vecchie alleanze, ma senza stravolgerle.
In realtà, il viaggio nell’estremo Oriente avrà lo scopo di aggiornare trattati e prospettive, specie quelle con la Cina, con cui sono in gioco interessi economici e finanziari enormi, e di riposizionare programmi e accordi sul clima e sullo sviluppo economico, anche chiudendo gli occhi sulla violazione dei diritti umani (Cina).
Intanto si avvicina il tempo delle scelte sull’Afghanistan.
Obama rientrerà il 19 in America ed allora farà conoscere le sue decisioni in merito alla strategia che intende adottare in Afghanistan. Lo scontento c’è, Karzai non da nessuna garanzia di una svolta contro la corruzione. Obama pensa ad un’exit strategy, si tratta solo di sapere quando e in che modo, con i maggiori vantaggi.
Clinton e Gates sono dell’avviso che bisogna inviare i 40 mila soldati di rinforzo per controllare il territorio e vincere la guerra coi talebani e Al Qaeda; Obama, però, pende dalla parte del vice presidente Biden che propone il coinvolgimento dei talebani moderati nella gestione del governo e quindi il no all’aumento delle truppe.
Prima di partire ha dichiarato: “Voglio essere certo che quando mando giovani donne e uomini in guerra e spendo miliardi di dollari dei contribuenti americani, lo faccio perché ciò rende il Paese più sicuro”. Quindi sceglierà una soluzione che consideri “sia gli aspetti militari che quelli civili”.
Molto verosimilmente la decisione che prenderà al rientro dal viaggio asiatico terrà conto anche dei “suggerimenti” e degli interessi della Cina.
✗[email protected]
Articolo precedente
Prossimo articolo
Ti potrebbe interessare anche...
- Commenti
- Commenti su facebook