Sono passati ormai dieci anni dalla firma della Convenzione di Ottawa, con la quale gli stati firmatari si impegnavano a proibire l’uso, lo stoccaggio, la produzione e il commercio delle mine antipersona nonchè la distruzione di quelle già esistenti, ma purtroppo il problema resta ancora allarmante e continua a mietere vittime tra la popolazione dei territori interessati, ad ulteriore dimostrazione di come, sempre più, a pagare il prezzo di guerre decise dall’alto siano civili innocenti e, orrore nell’orrore, bambini indifesi.
I dati incontrovertibili delle numerose indagini svolte a proposito parlano chiaro: ogni anno l’accidentale esplosione di mine antiuomo uccide in media 15.000 persone: il 55% , quindi più della metà, è rappresentato da bambini.
Bambini cambogiani, afgani, somali, curdi, tanto per citare solo alcuni dei Paesi che vivono con una perenne minaccia di morte sotto i piedi: bambini troppo lontani perché le loro grida arrivino fin lì dove si decide di continuare a produrre mine nonostante gli impegni presi in merito vadano in direzione contraria; scoppi troppo distanti perché il boato della loro deflagrazione arrivi alle orecchie di chi, consapevolmente, trascura il problema tagliando i fondi necessari per lo sminamento dei territori in questione.
E’ questo il vergognoso percorso che porta quelle vittime innocenti a diventare solo un numero, una statistica di cui tenere o non tenere conto sulla base di scale di priorità dimentiche sempre più delle emergenze che uccidono migliaia di persone innocenti nel mondo per colpa di guerre che continuano a colpire anche ben oltre la loro conclusione. E’difficile stabilire la quantità di mine disseminate nei circa sessanta paesi colpiti dal problema: approssimativamente si stima che ci siano circa 100 milioni di ordigni ancora inesplosi, disseminati soprattutto nell’Africa sub-sahariana, in paesi come Angola, Sudan, Uganda e Zimbabwe, mentre Afghanistan, Cambogia ed ex Birmania sono i paesi con il più alto numero di vittime, insieme ai territori dell’ex Jugoslavia. Una ogni 22 minuti.
E’ dopo il secondo conflitto mondiale che l’uso delle mine antiuomo ha cominciato ad assumere dimensioni particolarmente drammatiche, aggravate successivamente dal gran numero di guerre civili e conflitti etnici che hanno insanguinato il mondo e durante i quali tali arme sono state usate, aggravante molto significativa,al di fuori delle tradizionali regole che prevedono la stesura e la conservazione di mappe dei campi minati, al fine di rendere possibile le tecniche di sminamento una volta cessato il conflitto che ha portato al loro uso. Questo, insieme ai particolari materiali di cui sono composte alcuni tipi di mine rende, ancora oggi, oltremodo difficile, nonché pericoloso per gli stessi addetti, le operazione di individuazione e distruzione delle mine disseminate nei territori che sono stati scenari di conflitti bellici e nei quali la terribile eredità delle mine sopravvive alle guerre che hanno portato alla loro diffusione.I bambini sono quelli maggiormente esposti al rischio di essere feriti da questi temibili residuati bellici perché tali armi, piccole, colorate e di forma strana spesso vengono scambiare per giocattoli e le conseguenze per la loro salute, come per quella degli adulti, sono gravissime.
Gino Strada, nel suo libro “Pappagalli verdi” ebbe a dire di non aver mai visto ferite tanto gravi, in tempo di pace, come quelle causate dalle mine: l’85% dei bambini feriti dalle mine muore per le ferite riportate prima di arrivare in ospedale; chi invece ci arriva, grande o piccino che sia, è condannato ad esiti terribili: amputazioni di arti e perdita della vista nel caso di esplosione di mine raccolte con le mani, udito quasi sempre compromesso, ferite alle zone genitali nelle esplosioni causate dal passaggio sulle mine.
L’impatto di questa tremenda realtà sulla vita dei civili ha ripercussioni anche sullo sviluppo delle popolazioni stesse, perché la presenza delle mine rende impraticabili ampi territori che vengono così sottratti all’agricoltura, unica forma di sostentamento per molti villaggi, con effetti psicologici ed economici devastanti.
Anche gli sterili dati numerici danno la misura innanzitutto del dramma in sè e poi dell’assurdo capovolgimento della situazione: nel primo conflitto mondiale a perdere la vita fu il 15% della popolazione civile; oggi, fonti autorevoli stimano che, sul campo di battaglia, a cadere è il 7% dei combattenti: il resto è fatto da civili, bambini, donne e anziani che durante e dopo i conflitti armati pagano le follie dei signori della guerra.