Scelta civica, 10% alle ultime elezioni politiche, è implosa: tra le tre componenti è finito il progetto, è rimasto un potere “ininfluente”
Tra Mario Monti, Casini, Fini e Montezemolo l’alleanza è arrivata al capolinea. Formalmente mantengono ancora il gruppo unito alla Camera e al Senato, ma solo per ragioni di numero. Per il resto non hanno più nulla da dirsi. Fini, non eletto, era già fuori, gli altri, a giudicare dalle accuse e controaccuse dei giorni scorsi, sono gli uni contro gli altri armati.
Dunque, tanto per fissare una data, all’indomani della caduta del governo Berlusconi (metà novembre 2011), Monti diventa presidente del Consiglio di un governo tecnico voluto dal presidente Napolitano, che non scioglie le Camere. I più grandi sostenitori di Monti sono Pierferdinando Casini e Gianfranco Fini, i quali, sia nelle elezioni precedenti che in quelle seguenti della primavera del 2012 si presentano insieme come terzo polo ed escono per la seconda volta sconfitti. Il terzo polo fallisce miseramente: dal centrodestra non ricevono voti (semmai vanno a Grillo), dal centrosinistra lo stesso (vanno anche loro a Grillo).
Monti, dunque, è sostenuto anche dal Pd e dal Pdl, non secondo un’alleanza politica, ma secondo lo schema di un sostegno separato. Monti è l’homo novus, carico di prestigio internazionale per essere stato due volte commissario europeo nominato prima da Berlusconi e confermato poi da D’Alema, serio e competente e con un sostegno amplissimo. Ha un compito: rimettere a posto i conti e uscire dalla crisi.
L’inizio è ottimo. Approva subito la riforma delle pensioni: è un segnale all’Europa e ai mercati. E’ una legge severa, perché costringe gli uomini a lavorare fino a 67 anni con incentivi se restano da uno a tre anni in attività (le donne possono smettere di lavorare tre anni prima con le penalizzazioni e tre anni dopo con gli incentivi. La durezza della legge passa sotto silenzio, ma oggi è evidente che bisogna riformarla. Un muratore non può lavorare fino a 67 anni, né lui, né tante altre categorie.
Monti passa alla riforma del lavoro e qui in sostanza non cambia nulla, in Italia l’occupato è illicenziabile, sarà sempre un giudice del lavoro a reintegrarlo nella maggioranza dei casi. Poi ci sono le liberalizzazioni, che deludono tutti, Monti in primo luogo, perché in questa materia tutto rimane com’era. Cambiano, invece, le tasse, troppe e troppo pesanti, una medicina forse necessaria, che hanno come effetto quello di rimettere a posto i conti, ma svuotano le tasche degli italiani e uccidono molte piccole e medie imprese. In poche parole, calano i consumi, diminuisce l’occupazione, falliscono le imprese, è recessione e sono guai per la gente.
Il Pdl, in caduta libera, sta per togliere la fiducia al governo, Casini e Fini si orientano verso un accordo non prima delle elezioni, ma dopo, con il Pd di Bersani, che marcia verso una possibile, quasi scontata, vittoria. A dicembre il Pdl toglie la fiducia e si prepara alle elezioni. Berlusconi offre a Monti la guida dell’area moderata, Monti rifiuta e da arbitro che era decide di “salire in politica” quando è ancora presidente del Consiglio, alienandosi le simpatie del Pd che si sente già vincitore.
Ed ecco l’alleanza Monti, Udc, Fli e Italia Futura di Montezemolo, ovvero il tentativo di un terzo polo sulla carta trainato da un Monti che comunque gode di un prestigio internazionale ancora intatto. Nasce Scelta civica, un nome troppo concettuale, leader ne è Monti, bocconiano quanto si vuole, ma inefficace quando parla, con un programma di lacrime e sangue dopo che aveva già tramortito di tasse e di disoccupazione gl’italiani. Un alleato di Monti, Montezemolo, non si presenta alle elezioni; Casini e Fini, per continuare a contare, si nascondono dietro di lui, e mirano a condizionare il premier. Monti imposta la sua futura premiership appellandosi ai riformisti di Pd e Pdl, che era chiaro che non lo volevano. Risultato: un magro 10%, con Fli cancellato, Udc ridotta ai minimi termini e Montezemolo con percentuali da prefisso telefonico. Grillo aveva sottratto al Pdl e al Pd i loro elettori mobili, che non vanno a Monti, il quale si aggrappa a quanti votano ancora, circa il 2%, Casini (1,7%) e Fini (o,46) e a quanti danno fiducia a lui: un magro 8%, “ininfluente” come disse lo stesso Monti deluso.
Dopo le elezioni, i conti. Monti vuole un nuovo partito strutturato e presente nel territorio, perché deluso dall’Udc-Fli che non hanno portato nulla, l’Udc che vorrebbe contare, ma non ha né i numeri, né il prestigio. Casini non può subire l’oscuramento di Monti che resta presidente ma ritorna alla Bocconi, quasi a dire vedetevela voi, e poi perché ha fretta di riciclarsi, di trovare un altro alleato a cui aggrapparsi per restare a galla. E siamo arrivati a Monti che constata riferendosi all’Udc: “Tanto rancore nei miei confronti”, e a Casini che gli rinfaccia: “Senza di noi tu non avresti mai fatto il presidente del Consiglio”.
Ognuno per sé, dunque, perché anche tra Monti e Montezemolo è calato il freddo. La meteora Monti è finita perché Monti è un tecnico, non un politico, doveva rimanere un tecnico e ha voluto fare il politico sapendo che non era portato per farlo, ed è finita perché gli alleati erano quelli che sono, in politica da trent’anni con un 3-4-5% al massimo, buono solo per contrattare posti di potere.
Tutto questo conferma che il terzo polo non ha spazio in Italia, perché non ci sono leader in grado di organizzarlo. Quando ci sarà una nuova legge elettorale – si punta sul semipresidenzialismo alla francese con doppio turno – lo spazio sarà ancora più ridotto, e a giudicare dai risultati, non sarà una grande perdita.