È ancora Wikileaks a tenere banco sulle pagine dei giornali di tutto il mondo e anche se non ci sono ripercussioni immediate ed eclatanti, i problemi rimangono quelli che hanno preceduto la pubblicazione dei rapporti dei diplomatici americani al Dipartimento di Stato e finiti sui giornali.
Per gli Usa è una danno enorme soprattutto nei Paesi caldi delle crisi e delle guerre, vedasi l’Afghanistan, il Pakistan e il Medio Oriente, dove se ne ha qualche sentore dalla conferenza del leader di Hamas (più avanti). Altrove, le rivelazioni sanno di gossip. Ad avallare questa tesi è l’opinione dei capi del Cremlino, che hanno tacciato di “cinici” i responsabili americani, ma hanno anche detto che se venissero letti i rapporti segreti dei russi, assisteremmo a spettacoli più o meno simili.
Diciamoci la verità, i rapporti e i giudizi dei diplomatici sono l’andazzo normale negli ambienti diplomatici di tutte le ambasciate del mondo, ma dà fastidio sentirsi giudicati, magari negativamente, e vedersi spiattellato il giudizio sui giornali, in pasto al mondo intero e in modo particolare alle opposizioni interne.
Hillary Clinton è corsa ai ripari, da una parte rassicurando i Paesi alleati – e in questo quadro si è sprecata in elogi nei confronti dell’Italia e di Berlusconi “vero amico” – dall’altra sta cercando di boicottare il sito di Wikileaks e di mettere le mani su Julian Assange, che ne è l’ideatore e l’organizzatore.
A proposito di quest’ultimo, da una parte diffonde segreti nazionali (Usa) commettendo reato e creando lo scompiglio mediatico di questi giorni, dall’altra si nasconde e grida alla persecuzione dichiarando che è stato minacciato di morte.
Ricercato dalla polizia svedese e da un mandato di cattura internazionale per stupro, Julian Assange dovrà guardarsi sicuramente le spalle dai servizi segreti di mezzo mondo, in primo luogo da quelli americani. Egli, per soldi, ha ceduto le informazioni solo a giornali cosiddetti progressisti che gestiscono le informazioni come vogliono, ad uso e consumo dei propri interessi politici ed economici.
Non stupisce, dunque, che in corso ci sia una guerra sotterranea, anche perché non ci vuol molto a capire che il danno più consistente è stato e sarà arrecato agli Stati Uniti d’America, al Presidente Obama e alla loro credibilità nel mondo. I file, comunque, sono ancora tanti e dobbiamo abituarci alle varie puntate, come fossero quelle di una soap opera.
In Medio Oriente, tra l’indifferenza del mondo, Mubarack ha fatto l’asso pigliatutto, sbaragliando le opposizioni e in modo particolare i Fratelli Musulmani, i quali lo hanno accusato di brogli. Se sia vero o no, non sappiamo, anche perché ci sono Paesi dove è difficile stabilire dove sono i torti e dove le ragioni. Si trattava di elezioni politiche, quelle presidenziali ci saranno nel 2011, ma va da sé che Mubarack con la vittoria alle politiche parte da gran favorito e che lo sfidante, il Premio Nobel Mohammad ElBaradei, avrà pochissime possibilità, a meno che il raìs, vecchio (82 anni) e malato, non faciliti il compito al suo avversario. Ma questo è un altro discorso.
A una settimana dall’assegnazione del Premio Nobel per la Pace al cinese Liu Xiaobo – che non potrà ritirarlo perché condannato in Cina a 11 anni per attività sovversiva e non potrà ritirarlo nemmeno la moglie, agli arresti domiciliari, subito dopo il conferimento del premio – la Cina ha attaccato il governo norvegese, ritenuto responsabile dell’assegnazione del Nobel, facendo dichiarare al portavoce degli Esteri che “è difficile mantenere rapporti di amicizia con la Norvegia come in passato”, equiparando così il comitato del Nobel al governo del Paese.
La risposta del governo norvegese non si è fatta attendere ed è stata sferzante: “Sarà Pechino a farsi carico di eventuali conseguenze negative”.
Pechino non ha minacciato ritorsioni solo sulla Norvegia, ma anche su quei Paesi i cui rappresentanti diplomatici presenzieranno alla cerimonia. La diserteranno Cuba, Iraq, Kazakistan, Marocco e Russia. Hanno annunciato la loro presenza gli ambasciatori di 36 Paesi, Italia inclusa.
Infine, concludiamo con la conferenza stampa di Ismail Haniyeh, il medico di Gaza leader di Hamas, il quale ha annunciato tre notizie. La prima è che “In caso di accordo con Israele, accetteremmo il risultato di un referendum fra i palestinesi di Gaza, della Cisgiordania e della diaspora, anche se questo fosse diverso dalle nostre idee e princìpi”. La seconda è che “In questo accordo accetteremmo uno Stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme capitale, il rilascio dei prigionieri palestinesi e la soluzione della questione dei profughi”.
La terza è che “Se fosse vero quel che esce da Wikileaks, il dialogo col suo partito, il Fatah, dovrebbe fermarsi qui”.
In poche parole, allude al partito di Asbu Mazen, che sarebbe stato informato dagli israeliani sull’attacco a Gaza nel 2008.
Il leader di Hamas ha aggiunto che comunque la soluzione dei due Stati, palestinese e israeliano, non è possibile.
I commentatori di politica internazionale hanno giudicato senza importanza le sue parole, in quanto già dette nel 2006. Il premier israeliano ha commentato: “Nulla di nuovo. Un linguaggio doppio. Haniyeh non dice mai che gli basterebbe uno Stato vicino a Israele. Dice che lo accetterebbe. Ed è molto diverso. Perché ha sempre spiegato che uno Stato palestinese nei confini del 1967 è solo il primo passo: l’obiettivo è uno Stato islamista che rimpiazzi Israele”.
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