Alle Presidenze di Camera e Senato eletti Boldrini e Grasso
Dopo alcune votazioni andate a vuoto, sono stati eletti Laura Boldrini con 327 voti su 340 di cui dispone il centrosinistra e Pietro Grasso con 137 voti su 125, 12 in più, dunque. La dichiarazione di Beppe Grillo è inequivocabile: “Chi ha tradito si dimetta”. Alla prima votazione utile, dunque, il M5S si è spaccato. Probabilmente il gruppo filo Pd ha dato una mano sia alla persona di Grasso, magistrato antimafia con un curriculum di tutto rispetto, sia al centrosinistra stesso per metterlo a riparo da eventuali trappole provenienti da una votazione risicata. Ricordiamo che il centrosinistra, non avendo maggioranza al Senato, da solo non può fare nulla senza almeno un paio di alleati. Non può fare nulla né con i voti di Monti (appena 18 senatori e non tutti uniti) e nemmeno con un gruppo di senatori M5S. Per poter governare avrebbe bisogno dei voti di Monti e di quasi tutti i voti di Grillo. Prima, però, di raccontare fatti e retroscena, diciamo che anche il curriculum di Laura Boldrini è di tutto rispetto, essendo stata portavoce dell’Unhcr, l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. Prima di quest’incarico, dal 1993 al 1998 si è occupata del Pam (Programma alimentare mondiale) in qualità di portavoce dell’Italia. Sia la neo presidente della Camera, 53 anni, eletta nelle liste di Sel, sia quello del Senato, 68, nelle liste del Pd, hanno invitato all’unità e alla responsabilità.
Ma vediamo come si è arrivati alla loro elezione, visto che alla vigilia circolavano altri nomi, primo fra tutti per la Camera quello di Dario Franceschini che già aveva chiesto ai deputati del Pdl di essere trattato meglio di Gianfranco Fini.
Le caselle della presidenza di Camera e Senato dovevano servire a verificare la possibile alleanza tra centrosinistra e M5S, ipotesi su cui ha lavorato Bersani fin dall’inizio e su cui ancora ci lavora. Bersani, già all’indomani delle elezioni, aveva lanciato l’”operazione dialogo” con Grillo. In sostanza ha detto: o alleanza con Grillo o niente. Il leader di M5S ha sempre risposto picche, con insulti vari, fino all’ultimativo: nessuna fiducia, a nessun partito. Poi, quando sembrava che qualcuno dei suoi senatori stesse per cedere, Grillo lo ha bloccato con un: “se qualcuno vota la fiducia, io smetto con la politica”. Insomma, il M5S ha chiuso ogni spiraglio, ciò di cui ha dovuto prendere atto lo stesso Bersani quando amaramente ha dovuto constatare che con Grillo non c’era più nulla da fare.
Vanificata la prospettiva di un’alleanza, seppure a prezzo di continua instabilità, con M5S, non volendo nemmeno prendere in considerazione l’alleanza con il Pdl, e non essendo possibile andare subito al voto perché Napolitano non può sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato, l’obiettivo di Bersani, per rompere il muro dell’incomunicabilità, è stato quello di offrire una delle presidenze, quella della Camera o anche quella più a malincuore del Senato, al M5S, tanto è vero che i deputati e i senatori del centrosinistra, quando per l’elezione era necessaria una maggioranza dei due terzi, hanno votato scheda bianca.
E’ a questo punto che è entrato in gioco Mario Monti, presidente del Consiglio in carica “per il disbrigo degli affari correnti”. Monti ha sollecitato a Bersani un ruolo di intermediazione per il dialogo con le altre forze, specie con il Pdl. Strappato questo ruolo, ma senza concordarlo con il Pdl stesso, si è recato dal presidente della Repubblica per avere il via libera dal capo dello Stato. Il quale non solo è stato irremovibile, ma ha mostrato anche fastidio. Insomma, gli ha chiuso la porta in faccia, sia per motivi giuridico-costituzionali, sia per le mire che animavano Monti.
Ecco il ragionamento di Napolitano: Monti è presidente del Consiglio con poteri dimezzati, se si dimette deve essere nominato il vicepresidente, che non c’è, dunque bisogna nominare un altro presidente del Consiglio per qualche settimana per guadagnare tempo. E’ indecente, non solo agli occhi dei riflettori internazionali, ma anche per la non serietà di tutta la manovra. Il fastidio di Napolitano attiene a due motivi: primo, Monti era stato scelto come uomo superpartes e invece ha tradito questo ruolo candidandosi; secondo, che Monti, facendosi eleggere presidente della seconda carica dello Stato, in realtà, in caso di governo del presidente, sarebbe stato in pole position per l’incarico.
Napolitano, dunque, ha detto un “no” a muso duro a Monti. Questi ha esclamato: “Obbedisco, anche se non condivido” e al suo entourage: “Resto al mio posto, a marcire fino all’ultimo giorno”, che la dice lunga sulle sue ambizioni personali. Bersani stesso, che aveva cercato l’aggancio con i 17 senatori della Lega per un governo minoritario per superare i due mesi che separano dall’elezione del nuovo capo dello Stato che potrà sciogliere le Camere, ha sentenziato: “Monti pensa soltanto a se stesso. Doveva essere una risorsa, è diventato invece un ostacolo, un problema”. Nel gruppo parlamentare di Monti, alla Camera e al Senato, si sta facendo strada il malcontento nei suoi confronti.
Fallito, almeno fino ad ora, il dialogo e il tentativo di coinvolgere altre forze, pare che Bersani abbia fatto pervenire un messaggio a Berlusconi: eleggeremo due nostri candidati per andare alle elezioni a giugno. Il leader Pdl, allora, ha dichiarato: noi del Pdl ci chiamiamo fuori dai giochi delle presidenze.
A questo punto, Bersani, mettendo da parte Franceschini e Finocchiaro, ambedue non da tutti nel Pd ben visti, ha fatto eleggere Boldrini e Grasso, l’autorevolezza dei quali è un ulteriore, estremo tentativo di chiedere al M5S di votare la fiducia al suo governo.