Un Pd in preda alle convulsioni dopo la bocciatura di Marini, cattolico e fautore delle larghe intese, e soprattutto di Romano Prodi, anche lui cattolico ma “divisivo”, è stato capace del colpo di reni andando a chiedere scusa a Napolitano per aver disatteso tutti i suoi inviti al dialogo e per aver imboccato la strada pericolosa dell’implosione, supplicandolo di accettare la rielezione. Anche Berlusconi, dopo che il Pd e Bersani avevano stracciato l’accordo della “scelta condivisa” proponendo il nome di Prodi, si era recato dal presidente in fase di trasloco dal Colle, e si era lamentato con lui chiedendo il suo aiuto perché non sapeva con chi parlare nel Pd. Ovviamente, anche Berlusconi, pur sapendo dell’indisponibilità manifestata in più occasioni e ufficialmente, ha reiterato la richiesta di un secondo mandato, appellandosi allo stato di emergenza. Napolitano non aveva nessuna intenzione di accettare, sia perché ha 88 anni ed è stanco e sia perché sa che difficilmente sarebbe potuto arrivare fino alla scadenza del secondo mandato, e sia anche perché il secondo mandato avrebbe comportato in Italia una svolta nella direzione di una terza Repubblica di tipo presidenzialista. Napolitano, dunque, ha dovuto fare violenza su se stesso per dire di sì, e alla fine si è sacrificato per il bene dell’Italia, constatando la quantità di macerie che la testardaggine di Bersani aveva creato insistendo sull’alleanza con un Grillo che non ne voleva sapere e il tunnel imboccato da un partito arroccato sul no al dialogo come valore in sé. Alcuni giorni prima era stato Luca Ricolfi su La Stampa a far notare che ciò che all’estero veniva chiamata la “grande coalizione” in Italia veniva bollata in senso dispregiativo come “inciucio”, come se collaborare significasse demerito.
Napolitano ci ha riflettuto e non si è tirato indietro, dato lo stato di caos, seguito ed aggravato anche dalle dimissioni di Bersani e dall’evidente stato confusionale in cui è precipitato il partito che seppur di poco ha vinto le elezioni. Napolitano, però, non ha risposto con un sì rassegnato, ha posto delle condizioni. Come lui ha mostrato responsabilità, così l’ha pretesa dalle forze politiche, di fatto ricevendo un sì a tutto quello che aveva chiesto invano per quasi un mese e mezzo, in particolare un sì al dialogo e ad un governo di larghe intese, con un presidente del Consiglio condiviso, probabilmente i nomi sono quelli di Amato o Letta (lo si vedrà al momento dell’incarico).
Ha vinto dunque la linea di Napolitano e di quelli che hanno offerto la loro disponibilità, hanno perso coloro che volevano il muro contro muro perenne. Quanto durerà il governo non si sa, dipenderà dalla disponibilità di tutte le forze politiche interessate a fare le riforme necessarie, ma una cosa è certa, alcune riforme come quella elettorale dovranno essere assolutamente approvate e deve essere messa in moto una terza Repubblica diversa, ovviamente, dalla seconda. Napolitano ne sarà comunque l’artefice e il garante, poi, inevitabilmente, dopo un certo tratto l’abbandono, come quello attuato da Papa Benedetto XVI.
La rielezione di Napolitano è anche la prima, vera sconfitta politica di Grillo. Tra l’altro, alla notizia della rielezione di Napolitano, Grillo aveva gridato al golpe e annunciato una “marcia su Roma”, di mussoliniana memoria. Grillo, poi, si è ritirato, per sua fortuna, forse dopo essersi guardato intorno e dopo aver pensato che una cosa è fare un comizio e un’altra governare un Paese e un popolo.
Tre mesi fa, il Pd si sentiva vincitore trionfante, ad elezioni avvenute il centrosinistra è stato “primo, ma non vincitore”, ora è a rischio scissione. Le fortune possono cambiare, vale per tutti, centrodestra e centrosinistra. Bisogna ricordarsene ed evitare di fare gli stessi errori, cosa, in Italia, sempre possibile.
L’Italia può dunque ripartire, la strada sarà irta di difficoltà, ma c’è almeno un timoniere che conosce la rotta.