Bersani ha lanciato l’”operazione dialogo” con il M5S di Grillo che gli rifiuta la fiducia
Alcuni mesi fa il dilemma era se chi avesse vinto le elezioni sarebbe stato in grado di mantenere la linea del rigore, della tenuta dei conti, del superamento della crisi. Quel dilemma esiste ancora, ma la priorità è un’altra: assicurare un governo stabile, impossibile da formare, dato che chi è primo, non è vincitore. In pratica, nessuno dei due schieramenti al Senato, da solo, riesce a formare una maggioranza, nemmeno alleandosi con il Centro di Monti.
Bersani, premier in pectore, l’autore del giudizio “siamo primi, ma non vincitori”, per uscire dalla paralisi e per trovare uno sbocco all’esigenza del Paese di avere un governo, si è rivolto a Grillo, a colui cioè che prima e durante la campagna elettorale ha condannato con vari insulti tra cui “fascista”. Per la verità, si è rivolto non direttamente a lui, ma a un gruppo di senatori grillini, contattati uno per uno, in maniera tale da superare la soglia di 161 voti per avere la maggioranza assoluta anche al Senato. Dalle cronache dei giornali pare che qualcuno al Pd abbia esclamato “è fatta”, ma non si è tenuto conto della reazione di Grillo, che da una parte ha dichiarato che su alcune riforme il M5S avrebbe votato di volta in volta, dall’altra ha chiuso la porta in faccia a Bersani con l’accusa di voler aprire il “mercato delle vacche” e con un insulto personale (“Il morto che parla”). Insomma, Bersani ci tenterà ancora, perché sa che sarà l’unica maggioranza possibile in grado di garantirgli di essere il prossimo presidente del Consiglio. Grillo al Senato ha 54 senatori, se votassero Bersani si aggiungerebbero ai 123 del centrosinistra e il leader Pd disporrebbe di una maggioranza di 177 voti. Tuttavia la missione, possibile numericamente, è politicamente quasi impossibile (aggiungiamo un “quasi” perché non si sa mai), anche se si trattasse solo di un gruppo di una trentina di senatori grillini. Perché? I motivi sono tanti.
Napolitano è contrario: Grillo è un populista, antieuropeo, con un programma condivisibile quando si tratta di lotta agli sprechi, alla casta, eccetera, ma non quando parla di settimana lavorativa di 20 ore e di uscire dall’Europa. De Bortoli sul Corriere della Sera si domanda: “Chi paga?”. Napolitano, rivolgendosi ai partiti nella fase che precede la convocazione delle Camere (15 marzo), ha detto che “tutti i soggetti politici devono avere misura, realismo, senso di responsabilità”, ma non si riferiva certo solo a Grillo. Se anche un gruppo fosse disposto a “tradire”, difficilmente i “traditori” potrebbero accettare di votare insieme ai 18 senatori di Monti, l’altro nemico pubblico di Grillo. Non solo: quali prospettive avrebbe un governo che si mantenesse su una maggioranza non sicura su tanti altri temi importanti? E ancora: l’Europa e il mondo ci guardano, in gioco c’è la ripresa o l’affondamento, non solo dell’Italia, ma di parte della stessa Europa. Infine, l’intesa con Grillo o con una parte dei suoi senatori è osteggiata da una parte consistente dello stesso Pd, malgrado Vendola si sia affrettato a dichiararlo “una costola della sinistra”, sulla scia di D’Alema che diede questo giudizio sulla Lega di Bossi a metà anni ’90.
Ma, dicevamo, questa sembra essere l’obiettivo di Bersani, disposto anche ad andare in Parlamento e chiedere un voto di fiducia alla cieca. Ancora una volta ha ottenuto lo stop di Napolitano, al punto che l’idea di Bersani e dei suoi sostenitori all’interno del Pd è quella di trovare una maggioranza per eleggere un nuovo presidente della Repubblica disposto ad essere meno rigido di Napolitano.
D’Alema, in un’intervista al Corriere della Sera, aveva aperto ad un governo di larghe intese rivolgendosi anche al Pdl, a cui il centrosinistra avrebbe potuto offrire la presidenza del Senato (e a Grillo quella della Camera). Berlusconi, contrario all’instabilità, si è detto disponibile anche ad un governo Pd-Pdl, ma buona parte del Pd è contraria.
La realtà è che le discussioni possono essere tante, ma le soluzioni si riducono a pochissime. Monti non potrà mai guidare un governo di proroga perché in campagna elettorale si è schierato, non è più il tecnico super partes come amava definirsi, ma il rappresentante di uno schieramento che tra l’altro ha perso. Monti, comunque, è inviso sia al centrodestra che al centrosinistra, e magari ora anche ai partiti che lo hanno sostenuto.
Siccome nuove elezioni sono impossibili a causa del semestre bianco di Napolitano, l’incarico potrebbe essere dato a Renzi o a un’altra personalità che potrebbero guidare o un governo a termine con lo scopo di fare velocemente un paio di riforme tra cui quella elettorale ed andare poi al voto dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica o un governo Pd-Pdl che duri minimo un paio di anni, cioè il tempo per fare davvero alcune riforme indispensabili, oppure anche un governo di legislatura di larghe intese con Camera e Senato a carattere costituente per dare un governo stabile ed autorevole al Paese e fare, tra le altre, la riforma istituzionale, di cui l’Italia ha tanto bisogno.
Insomma, o fare come fu fatto in Grecia (ritorno alle urne per chiedere al popolo un’indicazione più chiara) o come suggerisce Napolitano, che fa appello alle forze politiche ad usare quel “realismo” e quel “senso di responsabilità” che non sembrano avere.