Racconta, il noto giornalista Bernardo Valli, di aver incontrato, negli anni sessanta, un pittore sud africano che aveva dotato la sua casa, a Città del Capo, di un sofisticato sistema elettrico per non essere sorpreso di notte dalla polizia segregazionista del regime con l’amante indiana. La punizione, in tal caso, sarebbe stata di una impressionante serie di scudisciate.
L’altro ricordo, sempre di Valli, riguarda un medico italiano fuggito da Roma negli anni cinquanta per paura dell’imminente arrivo dei comunisti cosacchi in Piazza San Pietro. Egli teneva a Johannesburg delle conferenze (“scientifiche”!) per spiegare la diversa natura del sangue dei bianchi e dei neri. Poveri i pazienti capitati nelle mani di un simile pazzo.
Era il clima di allora nel Sudafrica ricco di ogni bene che la natura ci ha dato, dominato dalle sette schiaviste dei contadini boeri e degli industriali inglesi. La guerra fredda tra il mondo occidentale guidato dagli Stati Uniti d’America e il campo , come si diceva allora impropriamente, socialista, dominato dall’Unione Sovietica, preoccupava e divideva i popoli e le nazioni.
Il terrore di uno scontro atomico annientava le coscienze, impediva di guardare al di là del proprio uscio di casa verso la disperazione di un mondo, immiserito e oppresso. Il massacro di Sharpeville, del 21 marzo del 1960 – una settantina di corpi annotati, oltre a centinaia di feriti – attuato per reprimere una pacifica protesta per l’ ottenimento dei diritti più elementari, fu seguito da arresti di massa per decapitare, definitivamente, il movimento di liberazione dell’ “African National Congress” di Nelson Mandela. Nel mondo, scarse e quasi nulle furono le proteste. Lo stesso Nelson Mandela fu definito, in vasti ambienti della stampa e della politica, un terrorista qualsiasi al quale era doveroso dare la caccia. Un anno più tardi, d’altronde, il 17 gennaio del 1961, Patrice Lumumba, il presidente martire della nuova repubblica democratica del Congo, venne assassinato dai suoi stessi compatrioti agli ordini dei colonialisti belgi e della CIA americana.
Mi capitò, più tardi, di visitare quel disperato paese Sudafricano. Ero oramai un dirigente affermato nel campo delle costruzioni civili e l’impresa in cui operavo – erano i primi anni settanta – mi incaricò , unitamente a due ingegneri specializzati nella costruzione di gallerie, di appurare la possibilità di acquisire l’appalto di importanti gallerie metropolitane a Città del Capo e Johannesburg. Resistetti a lungo. L’dea di lunghi viaggi aerei, dopo l’ avaria del Fokker in volo tra Bengasi e Kufra nel deserto libico, incidente a cui sono, miracolosamente, sopravvissuto, non mi attira, per non dire mi terrorizza. Mi convinsero. Partimmo.
Arrivammo a Città del Capo e non vi dico il mio stato d’animo. Sconvolto e oppresso da un senso di terrore represso. L’attraversata del centro Africa, in prossimità dell’equatore, non vi dico. Passai alcune ore avvinghiato alla poltroncina business Class, i piedi allungati alla ricerca disperata di un appoggio mentre il quadrimotore di allora barcollava come una barchetta nell’oceano in tempesta. O forse, era solo qualche minuto di improvvisa turbolenza a cui io davo la grandezza di un omerico evento. Tant’è. Venimmo accolti e senza particolari controlli dai rappresentanti del potere politico locale. Mi impressionò il servilismo da cui erano circondati. Li accompagnavano e proteggevano da qualsivoglia fastidio, due guardie gigantesche dalla impeccabile divisa grigia e dal fare militaresco, tale da suscitare l’imbarazzo di un mio giovane amico e collega tedesco il cui nome era tutta una storia: Rommel.
Non vi dico l’attraversamento della città. Una visione spettrale. La perfezione di un camposanto nei primi giorni novembrini in cui ognuno di noi va a salutare i suoi cari, le ossa della memoria e del destino di ognuno. La Mercedes in dotazione della scorta scorre velocissima sul viale e faccio appena in tempo a scorgere un capannello di uomini neri che, all’apparire del mezzo, fuggono di lato alla velocità di un Usain Bolt, come la fuga dell’antilope nella sfida mortale con la tigre affamata della savana. Pochi giorni dopo, al decollo verso Johannesburg, osservando il paesaggio dall’oblo, intravvidi lo sterminato paesaggio della favela. Cercai di costruire nella mia mente la vita del popolo nero. Milioni di schiavi, a cui era negata persino la dignità, offesa ma compassionevole, dello zio Tom.
Nulla di diverso a Johannesburg. Chiesi di poter visitare Soweto. Lessi nei loro occhi il fiele del disprezzo verso quell’europeo di così insane intenzioni. Tornammo. Allestimmo la relazione di intenti in cui erano evidenti le ottime possibilità di appalto e guadagno per l’impresa. Alla direzione, che mi indicava come un possibile futuro responsabile, risposi con l’ inflessibile fermezza del diniego russo: niet! Tornai più tardi in quel disperato paese e quando, grazie alla lotta di Nelson Mandela e dei suoi compatrioti neri, la repubblica Sudafricana aveva ritrovato il suo posto tra i popoli e le nazioni del mondo. Tornai a Johannesburg. Nulla era ancora compiuto. La miseria disperante del popolo nero era ancora tutta lì a dirci che il cammino per la pari dignità di ognuno sarebbe stato impervio, difficile. Potei visitare, finalmente, Soweto. Conobbi Winnie, lì dimorante, dopo la separazione da Nelson. Fui accolto all’ università, voluta dal presidente Mandela per costruire la nuova classe dirigente.
Eravamo un gruppo di amici interessati a conoscere il nuovo corso della repubblica. Avevamo noleggiato un piccolo bus Volkswagen, condotto da un giovane bianco alquanto reticente alle nostre proposte. Chiesi informazioni sulla percentuale di bianchi e neri nella città. Rispose con fastidio e con altrettanta ritrosia dell’interprete: I neri sono la maggioranza. Ci penserà l’ AIDS a diminuire e annientare la razza nera. Che vergogna! Chiesi, all’istante, di scendere. Mi fu e ci fu difficile tornare, poi, all’albergo.
Ci aiutò un vecchio di cui leggevi nel volto tutte le miserie della appartenenza. Apparve un camioncino, scassato e scoperto, su cui salimmo cantando le canzoni della resistenza italiana, felici di aver conosciuto la parte buona della “razza umana. Umana, come scrisse Albert Einstein sul formulario nell’arrivo a New York. Umana, come definirono l’umanità il Mahatma Gandhi e Martin Luther King. Umana, come la volle Nelson Mandela, rifiutando ogni vendetta nel giorno del riscatto per il suo popolo. Addio Nelson. Ti sia leggera la terra.