No time to die, la venticinquesima puntata delle avventure del super-agente britannico, è finalmente arrivata nelle sale cinematografiche mondiali dopo una attesa che dura dal novembre 2019, data del previsto debutto.
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Facile immaginare, anche in questo film, la presenza di cattivi e di buoni, questi ultimi almeno al cinema destinati ad una sicura vittoria.
Scontato anche che la trama sia stata aggiornata alle priorità sociali dei nostri tempi, parità di genere prima fra tutte,
dato che, osservò Roger Moore con tipico understatement britannico, per tutto il resto il copione di ogni film di James Bond racconta sempre la stessa storia.
Facciamocene una ragione: il finale di No time to die prevede che il sequel avrà un protagonista totalmente nuovo, ed in futuro ci risparmierà alcune delle incongruenze che per quieto sognare abbiamo sinora accettato.
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Come abbiamo fatto quando all’originario Sean Connery la trama prevedeva di dare fiducia, a George Lazenby, poi a Roger Moore, proseguendo con Timothy Dalton, ed ancora con Pierce Brosnan, per arrivare a Daniel Craig, fisicamente diversissimi l’uno dall’altro ma che la finzione artistica ha proposto allo spettatore come fossero sempre la medesima persona.
Allora, perché questa produzione 2021 suscita tanto interesse?
Vari i motivi.
Innanzitutto, perché nel corso degli anni, esauriti gli spunti narrativi originariamente immaginati dal britannico Ian Fleming, vero agente segreto poi convertitosi in scrittore ed autore del personaggio cinematografico, ad ogni uscita nelle sale le pellicole di James Bond catturano lo spirito di un determinato periodo sociale.
Lo confermano le parole della produttrice e figlia di uno dei fondatori della saga, il leggendario Albert Broccoli, italo americano discendente da emigrati calabresi originari di Carolei, in provincia di Cosenza.
Ricordiamo anche che per lunghe sequenze, il film è stato girato in Italia, ed in particolare:
in Basilicata, a Matera;
in Puglia, a Gravina,
in Campania, a Sapri.
Recentemente intervistata dalla BBC, il servizio pubblico radiotelevisivo britannico, in occasione della Royal Premiere, la anteprima riservata alle celebrità internazionali precedute da Carlo e William d’Inghilterra, rispettive consorti incluse, Barbara Broccoli ha spiegato il processo creativo che anticipa la stesura di un nuovo copione.
“Il nostro gruppo di lavoro si riunisce per individuare i problemi sociali del momento; poi iniziamo ad immaginare come James Bond li può risolvere”.
Nel caso di No time to die, gli sceneggiatori avevano previsto che uno scienziato malvagio annientasse la umanità tramite un morbo letale diffuso per semplice contagio.
Alla prova dei fatti, in particolare delle cronache degli ultimi venti mesi, questa ipotesi pare abbia anticipato la realtà oltre ogni possibile previsione.
Tanto che, secondo le solite voci ovviamente non confermate ma plausibili, pare che alcune scene del film abbiano dovuto essere nuovamente girate per evitare riferimenti non casuali alle recenti difficoltà sanitarie.
C’è dell’altro: le vicende legate alla produzione di No time to die, sembrerebbero ispirate dalla sceneggiatura di Effetto Notte, il capolavoro del regista francese Francois Truffault, che nel 1973, scusateci il bisticcio di parole, girò un film sulla difficoltà di portare a termine un film continuamente ritardato da una serie di inconvenienti, e che diventò un capolavoro, non solo per la trama, ma per il fatto che si riuscì a concluderlo.
Per Bond #25, a complicare la situazione, oltre che l’interesse mediatico, si sono associati anche i costi dovuti ai continui rinvii dell’arrivo in sala.
La fattura delle campagne promozionali ripetutamente avviate ed altrettanto interrotte pare abbia superato alcune decine di milioni di dollari, ed appesantito un bilancio che già in origine si avvicinava ai trecento milioni.
Tanto che, sembra ad inizio dell’anno in corso, il film era stato offerto, prendere o lasciare, alle majors cinematografiche a circa seicento milioni, ma raccogliendo proposte di acquisto solo per quattrocento.
Risultato: la pellicola é rimasta nel cassetto in attesa di tempi migliori.
Decisione tutto sommato saggia, perché la ripresa economica prevista nei prossimi mesi oggi valorizza uno dei punti di forza di questa serie: il product placements, che gli esperti definiscono l’inserimento di prodotti con finalità pubblicitarie.
Facile immaginare che un recupero della libertà sociale incentiverà la propensione del pubblico mondiale ad emulare lo stile di vita dei protagonisti sul grande schermo, dopo mesi di acquisti online esibiti, per ben che sia potuto andare, in mortificanti quanto instabili video-chiamate destinate ad interlocutori insofferenti quanto noi ai confinamenti epidemiologici.
Quando si parla di product placement siamo certi che ogni spettatore comprenda a cosa ci riferiamo.
Basti ricordare gli ingredienti del famoso cocktail preferito da James Bond, o la marca della sua birra, o del suo immancabile time-piece, che noi comuni mortali chiamiamo orologio.
Per non dire poi della sua vettura.
Dal 1964, da Goldfinger in poi è diventata il simbolo dell’agente segreto, con i pregi e soprattutto i difetti inclusi, quando ci accorgiamo che mentre le piazze oggi si riempiono di attivisti climatici e l’industria automobilistica mondiale si converte alla propulsione elettrica, il super-eroe britannico invece sconfigge gli avversari ancora al volante di una vettura a motore termico, cioè a benzina, la cui unica dotazione di sicurezza sono due specchietti retrovisori esterni da regolare manualmente, sporgendosi dal finestrino.
Si dirà: non perdiamoci nei dettagli.
Come in guerra ed in amore, anche in tema di licenze artistiche al cinema tutto è permesso.
La attesa è comunque terminata: James Bond sta ormai invadendo i cinema mondiali e l’entusiasmo del pubblico si conferma tornato a livelli pre-pandemia.
Incassi compresi, che è poi quello che incentiva produttori e consumatori, cioè tutti noi, a presidiare i rispettivi ruoli.
Perché la venticinquesima puntata delle avventure di James Bond, forse più che in passato, finisce per tradursi nel desiderio del pubblico mondiale di tornare ad una normalità recentemente perduta ed ancora cercata.
Con le nostre presenti illusioni e remote certezze, compresi i panorami da cartolina e gli esotismi che riconosciamo inverosimili ma che proprio per questo ci invogliano ad entrare in un cinema: per sentircene spettatori, ed affrancarci da ogni complesso di inferiorità.
Non resta quindi che godersi i 163 minuti di spettacolo, e poi uscire dalla sala di proiezione con la aspettativa di tornare ad una vita confortevole perché uguale a prima.
Così fosse, basterebbe questa prospettiva, sinché ancora ci accompagna il ricordo delle immagini viste sul grande schermo, a convincerci che il prezzo del biglietto pagato per assistere a No time to die, tutto sommato, sono soldi ben spesi.
Anzi: è l’ultimo dei problemi che nei prossimi mesi ci troveremo a dover risolvere.
di Andrea Grandi e Nicoletta Tomei