Il 24 marzo, nella base avanzata denominata “Ice”, a causa delle bombe lanciate dai talebani, è morto il sergente Michele Silvestri, 33 anni, da due settimane in Afghanistan. Lascia la moglie e un figlio piccolo. E’ il cinquantesimo soldato italiano morto da quando la missione Onu è iniziata (2002). L’Italia, lo diciamo subito, fece bene ad andare in Afghanistan, insieme a tantissimi altri Paesi tra cui gli Usa, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania eccetera, sotto l’egida dell’Onu, che decise l’intervento “umanitario” in seguito alle repressioni e al terrore instaurati dai talebani al potere. Fece bene sia perché, appunto, la missione aveva un carattere umanitario, sia perché non era per secondi fini, tipo gas, petrolio o altre risorse energetiche. D’altra parte, che ne sia valsa la pena, anche a prezzo di molte vite umane e di un impegno di risorse non indifferente, basta ricordare le opere realizzate dagli italiani cui è stato assegnato il comando della regione ovest (Herat): ospedali, strade, pozzi d’acqua, aiuti alle popolazioni e protezione dei civili, e molto altro che può essere sintetizzato nella formazione e nell’organizzazione dell’esercito, della polizia locale, della vita amministrativa. Ciò premesso, la domanda che ci poniamo ora, a distanza di circa 10 anni dall’inizio di quella missione, è: vale la pena continuare a stare in Afghanistan? Vale la pena che si esponga la vita dei nostri soldati e si spendano ingenti risorse pubbliche per una conclusione della missione programmata nel 2014 e che già si sa che con il ritiro degli alleati si firmerà automaticamente l’atto di riconsegna dell’Afghanistan ai talebani? Continuare a stare in Afghanistan avrebbe un senso se la missione avesse uno scopo, quello della pacificazione nazionale, ma così non è e già si sa che non lo sarà. E’ in corso una trattativa tra il comando degli alleati e i talebani, interrotta in seguito ad una serie di vicende incresciose: immagini di soldati Usa che offendevano i cadaveri dei talebani, il rogo del Corano ad opera sempre di un gruppo di soldati Usa, la strage di 16 civili ad opera di un soldato americano in preda alla follia.
La trattativa proseguirà nel Qatar, zona neutra, ma avendo Obama annunciato il ritiro di una buona parte del contingente Usa entro luglio del 2013 e il resto entro la fine del 2014, data che probabilmente sarà anticipata, malgrado le assicurazioni in senso contrario, è chiaro che c’è stato un depotenziamento dell’azione militare degli alleati. I talebani dicono: visto che si ritirano entro al massimo il 2014 e visto che non ci saranno più azioni militari tra il 2013 e il 2014, ci conviene usare la tattica del dire e non dire, per guadagnare tempo; poi, quando si ritirano occuperemo di nuovo il potere. Ecco, non solo lo sanno gli americani e gli alleati, ma i talebani gliel’hanno detto chiaramente, al punto che il problema degli americani è quello solo di ottenere dai talebani che rinviino di qualche settimana l’occupazione del potere dopo il ritiro della missione Onu. A questo siamo arrivati. Se le cose stanno così, perché continuare a morire a Kabul e per Kabul se non si riesce più nemmeno ad aiutare le popolazioni civili? La soluzione più ragionevole sarebbe di anticipare il ritiro, punto e basta. Non – sia chiaro – come fecero Zapatero e Prodi che, con una decisione unilaterale e per motivi squisitamente elettorali, si ritirarono dall’Iraq proprio nel momento in cui più c’era più bisogno di restare lì per consolidare i risultati raggiunti, ma facendosi promotori di un’iniziativa diplomatica tra i Paesi alleati per mettere gli Stati Uniti di fronte alle loro responsabilità, che sono tante se l’esito della missione sarà quello prima citato, e per fare in modo che il ritiro anticipato non sia di questo o di quel Paese ma di tutti.