Sono iniziati sotto la spinta Usa ma nessuno crede che faranno avanzare il processo di pace
Il giorno prima di Ferragosto sono iniziati a Gerusalemme i colloqui tra palestinesi e israeliani, voluti fortemente dagli americani. Dall’una e dall’altra parte sono in pochi a credere alla loro utilità, appena il 18% degli israeliani, mentre i palestinesi addirittura hanno protestato perché Abu Mazen li ha accettati. Questo per indicare il clima in cui iniziano e in cui si svolgono: a Gerusalemme, abbiamo detto, ma non si conosce esattamente, per ovvie ragioni di sicurezza, il luogo esatto.
La storia degli ultimi 20-25 anni è costellata di annunci e di delusioni, di ricerca di pace e di scoppi di guerra. Ricordiamo i colloqui iniziati a Madrid nel 1991, quelli a Oslo nel 1993, quelli a Wye Plantation nel 1998, quelli a Camp David nel 2000, quelli ad Annapolis nel 2007. I palestinesi nel corso degli anni hanno accentuato la loro divisione tra Fatah e Hamas, questi ultimi confluiti nella striscia di Gaza, da dove mandano missili quotidiani sulle città israeliane, salvo brevi intervalli e salvo quando è guerra aperta, come è accaduto alcuni mesi or sono e nel 2009-2010.
Quella dei colloqui di pace è una necessità diplomatica e ideale, ma è al tempo stesso una storia di sconfitte, perché le questioni si sono talmente incancrenite e complicate che è davvero difficile venirne a capo. In seguito alle guerre degli anni Settanta, dichiarate dagli arabi agli israeliani, questi ultimi hanno occupato territori appartenenti ai palestinesi. Ne hanno mollato alcuni, come Gaza, ma in altri, in particolare a Gerusalemme Est, hanno piazzato le loro colonie. Si tratta di mezzo milione di coloni, cioè di famiglie che hanno lavorato la terra e costruito case e laboratori su terreni sterili ed ora chi li può cacciare, dopo decenni di lavoro? Quegli stessi territori vengono reclamati dai palestinesi che è vero che li persero in seguito a conflitti da loro (e non solo da loro) voluti, ma comunque a loro assegnati dall’Onu nel 1948.
I palestinesi pongono la questione dei territori, gli israeliani pongono quello della sicurezza, perché Hamas, cioè l’ala fanatica e militare dei palestinesi, non vuole riconoscere Israele e fa di tutto per cancellarlo. Poi c’è la questione della capitale, cioè Gerusalemme, rivendicata da palestinesi e dagli israeliani, una capitale a metà, tirata da una parte e dall’altra. Se si pensa poi che decenni di odi non si cancellano facilmente anche perché gli odi sono continuamente rinfocolati, allora si capisce come tutto si complica. I falchi palestinesi e israeliani sono in servizio permanente effettivo e si sa che basta poco per far divampare l’incendio.
Come se non bastasse, ci sono i dintorni e i contorni, rappresentati dall’Iran che vuole cancellare Israele, anche se il linguaggio del nuovo presidente Rohani è meno crudo di quello del suo predecessore. Poi c’è stato l’Egitto di Morsi, che ha mantenuto il trattato di pace siglato dopo la guerra dei Sei Giorni ma ha armato Hamas. Morsi è stato arrestato dopo il golpe militare del 3 luglio scorso, certamente l’esercito ha interessi a mantenere buoni rapporti nella regione con Israele, ma il guaio è che ora è l’Egitto stesso a rappresentare una polveriera, che si aggiunge a quella scoppiata due anni fa in Siria. Insomma, è tutta la regione ad essere un vulcano in ebollizione.
Chi ha voluto la ripresa dei colloqui sono stati soprattutto gli Usa, bisognosi di portare a casa un successo internazionale che non arriva da nessuna parte, né dal Pacifico, né dal Medio Oriente, né dall’Europa dell’Est, né dall’Africa e né dal Nord Africa, come appunto l’Egitto, la Libia e la Tunisia. Abu Mazen li ha voluti più per affermare il primato della politica sulle armi, volute da Hamas, che perché creda in un successo. Netanyahu li ha voluti per non spezzare il filo che lega Israele agli Usa, che ha promesso aiuti nel caso in cui Israele sia costretto ad attaccare l’Iran se questo Paese dovesse arrivare alla costruzione della bomba atomica.
Ecco, in queste condizioni sono iniziati i colloqui di pace, preceduti da un atto di buona volontà da parte di Israele che ha liberato 26 detenuti politici palestinesi, alcuni autori di atroci misfatti. La liberazione dei prigionieri (era stata chiesta la liberazione di migliaia ma alla fine i palestinesi si sono accordati per 26) è un pegno pagato all’inizio dei colloqui, per dare ai palestinesi il via ad un loro consenso che è piuttosto un alibi che un atto di convinzione. D’altra parte, se per i palestinesi i 26 ex prigionieri sono la moneta per offrire qualcosa ai falchi palestinesi, l’annunciata costruzione di 1200 abitazioni a Gerusalemme Est è il contentino offerto dal governo ai falchi israeliani. Insomma, i colloqui sono infiniti, si va avanti a piccoli scambi solo per iniziare, il resto è un’altra musica. E che Dio gliela mandi buona.