In Birmania è iniziato il processo contro il Premio Nobel Aung San Suu Kyi accusata di violazione degli arresti domiciliari, in seguito all’intrusione nella sua abitazione di un americano
Lunedì 18 maggio è iniziato in Birmania il processo contro Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace, arrestata alcuni giorni prima con l’accusa di aver violato le norme sugli arresti domiciliari per aver “ospitato” un americano, John William Yeattaw, che, dopo aver fatto a nuoto due chilometri, era piombato improvvisamente a casa sua. A quest’accusa se n’è aggiunta un’altra, quella di aver violato la legge sull’immigrazione. Data la dinamica dei fatti, è chiaro che i generali al potere hanno colto l’occasione insperata per impedirle con un processo e con una prevedibile condanna – magari agli arresti domiciliari – di presentarsi da persona libera alle elezioni politiche dell’anno prossimo.
La risonanza internazionale del nuovo arresto – seguito a quello iniziato nel 1990 – ha fatto sì che il regime acconsentisse a 28 diplomatici accreditati in Birmania e a dieci giornalisti di essere presenti alla prima seduta del tribunale. Successivamente, tre ambasciatori (Tailandia, Singapore e Russia) hanno potuto parlare con l’accusata in carcere. Non sappiamo quanto tempo durerà il processo, però l’opinione pubblica internazionale ha già cominciato a far sentire la sua voce sia attraverso le prese di posizione dei singoli Stati, Italia compresa, sia attraverso le testimonianze di altri Premi Nobel che ne chiedono la scarcerazione, essendo palese l’innocenza di Aung San Suu Kyi.
Ma gli avvenimenti di politica internazionale non si fermano in Birmania. Il 4 giugno il presidente Obama andrà in Egitto per incontrare il presidente Mubarack. Sarà l’occasione per rivolgersi ai Paesi musulmani al fine di un’apertura politica generale, secondo quanto annunciato ufficialmente dal presidente americano già un paio di settimane fa. In questa occasione, ritenuta importante per una svolta politica e culturale con il mondo arabo e musulmano, Obama presenterà un piano di pace per il Medio Oriente che ricalca la sostanza della proposta saudita del 2002.
In base alle notizie trapelate, lo Stato palestinese potrebbe nascere entro 4 anni, non avrebbe un esercito né potrebbe firmare accordi militari con altri Paesi. Queste sarebbero le condizioni per garantire la sicurezza di Israele, con cui il nuovo Stato palestinese risolverebbe la questione dei confini con scambi di territori. Capitale sarebbe Gerusalemme Est, mentre la vecchia città diventerebbe zona internazionale sotto l’egida dell’Onu. I palestinesi dovrebbero rinunciare al “diritto al ritorno” dei profughi, a cui provvederebbero Usa e Europa con forme di compensazione.
Questo piano avrebbe già ricevuto l’approvazione del re di Giordania, Abdallah, nel corso dei recenti colloqui a Washington. Secondo gli esperti di politica internazionale, Obama si aspetta altri simbolici gesti da parte di Israele, come l’allentamento della pressione su Gaza per uomini e merci e la facilitazione del movimento delle persone in Cisgiordania.
La visita del presidente americano doveva essere preceduta da quella di Mubarack a Washington, ma questa visita non ha avuto luogo per un lutto nella famiglia del presidente egiziano. In ogni caso, non cambia la strategia globale.
Significato politico, invece, ha assunto la rinuncia del ministro degli Esteri Franco Frattini in Iran, dove avrebbe dovuto incontrare il presidente Mahmud Ahmadinejad. Questi, un’ora prima della partenza del ministro degli Esteri Italiano, ha comunicato alla Farnesina un cambiamento di luogo. Al posto di Teheran l’incontro si sarebbe dovuto tenere a Semnan, nel luogo dove si era appena compiuto un test missilistico a tecnologia avanzata, capace di colpire Israele e la parte meridionale dell’Europa.
“Mi aspettavo uno sgarbo dal governo italiano”, ha detto un esperto di Iran come Raphael Israeli, secondo cui “la politica mediorientale di Berlusconi non piace ai falchi iraniani. C’è stato lo schiaffo della Conferenza di Ginevra (a cui l’Italia non ha partecipato in quanto la mozione finale aveva ‘contenuti razzisti’ ndr)”. A giudizio dello stesso esperto, l’Iran ha voluto ricambiare l'”imbarazzo diplomatico”. Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha parlato di “trappola iraniana”. In verità la visita in quel luogo del ministro degli Esteri italiano serviva in un certo senso a “coprire” la provocazione del presidente iraniano per fini interni.
In sostanza, visto che ci sono le elezioni politiche in Iran, la visita di Frattini avrebbe avallato la leadership di Ahmadinejad agli occhi dell’opinione pubblica iraniana.Trappola che, però, non è scattata.