La politica internazionale si sta muovendo all’insegna del rilancio del presidente americano, con un sussulto anche dell’Europa che, alla fine, trova l’accordo per salvare la Grecia dalla bancarotta. Su quest’ultimo punto, l’accordo trovato al vertice di Bruxelles è una soluzione che prevede prestiti bilaterali coordinati dagli Stati, in base al peso nella Banca centrale europea, e un intervento integrativo del Fondo monetario internazionale (Fmi). Per mesi le posizioni sono state due, distanti tra di loro. Da una parte la posizione di Angela Merkel, che vedeva come unica possibilità per la Grecia il ricorso al prestito del Fondo monetario internazionale, dall’altra la posizione di altri Paesi dell’euro, come la Francia, l’Italia e altri Paesi del Mediterraneo, che sostenevano un prestito di solidarietà da parte dell’Europa. Alla fine, dunque, il compromesso tra Francia e Germania è stata la carta vincente.
Ma, dicevamo, la settimana scorsa l’immagine del presidente Usa, appannatasi negli ultimi mesi in seguito agli scarsi risultati della sua politica, è tornata a splendere, grazie ad alcuni successi in politica interna ed estera.
In politica interna è stata finalmente approvata la riforma sanitaria, che estende ad altri 30 milioni di americani – esclusi i circa 18 milioni di clandestini – la possibilità di avere una copertura sanitaria, senza sottostare alla legge delle assicurazioni che potevano rifiutare l’iscrizione di malati cronici. Certo, ad un europeo fa sorridere tanto entusiasmo, visto che il sistema sanitario da noi copre tutti, però negli Usa è stata una “rivoluzione”, termine di cui si abusa fin troppo. La riforma di Obama è stata approvata al Congresso, ma per questioni di cavilli formali deve tornare alla Camera.
Ci si potrebbe chiedere come mai un Paese per altri versi così civile abbia permesso finora un sistema così disuguale: la risposta pare risieda nel rifiuto degli aiuti di Stato nella sfera privata. In ogni caso la spesa per la copertura della riforma ammonta a 940 miliardi di dollari in dieci anni. La riforma, tuttavia, sarà una “rivoluzione” negli Usa, ma in molti Paesi europei appare obsoleta; nonostante questo, non è detto che nell’applicazione troverà la via spianata in vari Stati. È innegabile, comunque, che la sua approvazione abbia rilanciato l’immagine di Obama.
Non è la sola questione. L’altra è l’intesa Usa-Russia sul disarmo nucleare, raggiunta nei giorni scorsi al termine di una trattativa iniziata dodici mesi fa. La firma dell’accordo – il nuovo trattato Start – avverrà l’8 aprile e prevede che Usa e Russia taglino di ancora un terzo il numero delle loro rispettive testate nucleari intercontinentali portandole dalle attuali 2200 a 1550. Il nuovo accordo riduce anche il numero dei lanciatori, con un limite di 800 per parte che comprende sia quelli a terra che quelli sui sottomarini e sui bombardieri. Il terzo punto dell’accordo riguarda il numero dei missili atomici spiegati, cioè già pronti al lancio: essi dovranno scendere a 700 per parte. Va da sé che il patto prevede anche ispezioni senza preavviso e verifiche, con scambi di dati telemetrici. Quanto ai sistemi di difesa antimissile, i due Stati hanno posizioni divergenti. In particolare Mosca si oppone allo scudo difensivo da installare in Europa (Repubblica Ceca e Ucraina) e per ora bloccato. Nell’accordo le due posizioni saranno specificate con dichiarazioni non vincolanti.
Infine, c’è la ripresa dei “colloqui indiretti” tra i palestinesi e gli israeliani sotto l’egida della lega Araba. Come si ricorderà, i colloqui non sono ancora partiti, bloccati dall’annuncio del ministro degli Interni israeliano, in occasione della visita del vice presidente americano Joe Biden, della costruzione di 1600 nuove abitazioni a Gerusalemme Est. La toppa diplomatica non ha sortito nessun effetto, anzi, ha aggravato i rapporti non solo con gli Usa, ma anche con la Francia e parte dell’Unione europea.
La settimana scorsa Netanyhau si è recato a Washington ma i colloqui non hanno fatto nessun passo in avanti. Addirittura, non c’è stata informazione pubblica sull’esito dei colloqui. Si sa, comunque, che Obama si è mostrato spazientito perché la delegazione israeliana non ha fatto nessuna concessione che possa diventare oggetto di scambio. Il minimo che il presidente Usa si potesse aspettare è la rinuncia ai nuovi insediamenti a Gerusalemme Est. La visita ha assunto anche aspetti grotteschi, come la permanenza della delegazione israeliana alla Casa Bianca a discutere tra le varie anime rappresentate nel governo e l’uscita di Obama per andare a mangiare con la famiglia.
In assenza di serie offerte ai palestinesi, Israele non solo rimedierà una brutta figura internazionale, non solo rientrerà più debole di prima – ma questo riguarderà il governo e la persona di Netanyhau – non solo rischia di perdere anche l’appoggio dei Paesi, come l’Italia e la Germania, che finora gli si sono dimostrati amici, ma sarà la causa di una situazione incandescente che si prevede esploda in Medio Oriente in assenza di un percorso di trattativa che possa sostenere attivamente la pace.