L’attenzione della nuova amministrazione Usa si concentra
sui due Paesi a forte densità di fondamentalisti: Afghanistan e Pakistan
Si va precisando la nuova politica estera americana in Afghanistan e dintorni.
Nella scorsa edizione abbiamo parlato dell’apertura Usa verso l’Iran nel tentativo di coinvolgerlo nella stabilizzazione della regione. La conta dei giorni che separano il ritiro della maggior parte delle truppe americane dall’Iraq è iniziata. Il termine doveva essere la fine del 2011, ma poi, vista l’enormità della crisi, la data è stata anticipata all’agosto del 2010, cioè fra poco più di un anno, il tempo per “proteggere” il ritiro e lasciare in sicurezza il territorio. In Iraq resteranno truppe scelte, circa 50 mila uomini, per assicurare “protezione” ed addestramento alle forze locali.L’interesse si sposta e si concentra sull’Afghanistan e sul Pakistan. L’ammiraglio Mike Mullen, capo degli Stati Maggiori Congiunti, ha spiegato alla stampa la strategia di Obama nella regione. La strategia si può condensare in 15 obiettivi, tra militari e civili, con uno che li ingloba tutti e che consiste nel neutralizzare i due Paesi dall’influenza di Al Qaeda mediante aiuti economici e il dialogo con i talebani moderati. Nei dettagli sono scesi due personalità, il generale David Petraeus, comandante delle truppe in Medio Oriente, e l’inviato Richard Holbrooke, i quali hanno messo l’accento sull’importanza del Pakistan e sulla necessità che non cada in mani estremiste.
L’amministrazione Usa rafforzerà il contingente in Pakistan, con dotazione di mezzi militari, per aiutare gli uomini nuovi del governo e i militari locali; darà al Pakistan nuovi aiuti economici per 15 miliardi di dollari; sosterrà le istituzioni pakistane incapaci, da sole, di controllare il territorio. Il Pakistan ha la bomba atomica, dunque è un Paese a rischio se cade in mano ai fondamentalisti. Di qui il ruolo di cerniera e di stabilizzatore nella regione e di qui l’attenzione ai talebani moderati, sull’esempio di un’analoga strategia in Iraq verso le fazioni minoritarie e orfane di Saddam Hussein.
Anche l’Italia è coinvolta nel discorso strategico nella zona. E’ noto il proposito di Obama di chiedere all’Italia un impegno militare maggiore in Afghanistan, impegno che è stato concesso con altri 600 uomini circa, ma riguardo all’impiego militare delle nostre truppe nelle zone calde del Sud e dell’Est l’Italia reclama la presenza nella “war room”, ovvero nella stanza dei bottoni della guerra. In ogni caso, per la mole degli scambi commerciali con il Pakistan l’Italia è ritenuta importante anche ai fini del coinvolgimento nel discorso di pace di Iran e India. Spostandoci un pochino più a Sud-Est, incrociamo il Tibet, dove in questi giorni si ricorda il cinquantesimo anniversario dell’insurrezione contro Pechino.
A dire il vero, i riflettori internazionali si accesero un anno fa, quando nel tentativo di attirare l’attenzione sul loro piccolo Paese i tibetani insorsero, attirandosi le ire della Cina che rispose con la repressione. Le Olimpiadi non hanno portato fortuna ai tibetani, perché la Cina è riuscita a “spegnere” la protesta dapprima, come detto, con la repressione, poi con una specie di commissione del dialogo che si è rivelata, ad Olimpiadi finite, una farsa.Oggi, il capo del governo cinese può dire che il Tibet è “pacifico e stabile”. In realtà, per evitare nuove proteste, tutto il territorio è presidiato dall’esercito, i monasteri sono stati isolati e il turismo chiuso. La Cina non cede.
Al Dalai Lama, che vuole non l’indipendenza, ma l’autonomia, la Cina risponde che l’autonomia esiste già, solo che esiste alle condizioni cinesi e cioè che il territorio è cinese e basta. Il dialogo è tra sordi, ma è evidente che il Dalai Lama ha perso.
Infine, uno sguardo sul Sudan, dove, in seguito alla condanna da parte del tribunale internazionale dell’Aja di Omar Al Bashir, c’è stata un’ondata di proteste da parte dei supporter del dittatore, che ha messo alle porte decine di organizzazioni non governative operanti in Darfur a favore delle popolazioni locali martoriate dalle stragi delle milizie arabe, agli ordini di Al Bashir. Proprio una di queste, Medici senza frontiere, guidata da Gino Strada, è stata oggetto di sequestro di tre suoi aderenti, tra cui un medico italiano, Mauro D’Ascanio.
Per la verità Medici senza frontiere aveva preso le difese di Al Bashir contro la condanna emessa dall’Aja ed è questa difesa che ha giocato a favore della liberazione dei tre ostaggi.
Insomma, è chiaro che il sequestro è stato fatto contro l’organizzazione sbagliata (in quanto amica) ed è altrettanto chiaro che, una volta che il regime si è accorto dell’errore, l’intervento di Al Bashir è stato determinante nella liberazione dei tre medici.
Se gli ostaggi sono stati liberati, non lo è stato e non lo sarà per adesso il Darfur, oggi più che mai martoriato malgrado i riflettori internazionali.