Nel mentre mi appresto a partecipare al solito convegno della minoranza del partito democratico che non si rassegna al vento contrario della storia, nell’attraversare il transatlantico, liberato dal chiacchiericcio giornaliero dei deputati, lancio uno sguardo allo schermo televisivo installato all’ingresso del corridoio che porta all’uscita del palazzo. Io lo chiamo, scherzosamente, la camera a gas per il diritto alla morte lenta e sicura nel tempo presente.
Non si spaventi, il lettore, è unicamente la denuncia di un malcostume italiano che imperversa un po’ dovunque e persino all’interno del parlamento repubblicano. Il corridoio in questione è uno degli spazi destinati agli accaniti fumatori . Lo frequentano, giornalmente, dal mattino e sino a notte inoltrata. Attraversarlo, il corridoio, è per me ritornare al passato che fu. Lontano nel tempo, ma pur presente nella memoria e nelle vene di un corpo per decenni assuefatto all’ebbrezza di un aspirato desio. Nell’osservare la spirale grigiastra eruttata dalla bocca di un
Collega, appollaiato nelle soporifere poltrone di cu è ricco il corridoio, ne percepisco il godimento tanto le labbra sono spalancate nell’ assecondare lo sguardo verso l’alto infinito in cui si perde la nebbiolina dell’ultima cicca, prima della sua fine ingloriosa tra i rimasugli di improvvisati posaceneri. Da vecchio e accanito fumatore, indovino spesso, o forse è solo arrogante fantasia, la marca della sigaretta. Un giorno, capitò per davvero. Mi arrestai di fronte al barbuto giornalista accerchiato da giovani colleghi ansiosi di conoscere l’ultimo segreto di una politica ormai ridotta a pettegolezzo e parlottio di palazzo, colpito dall’intenso odore dello spazio circostante, prigioniero della nebbia amica, quasi fosse una qualsiasi giornata invernale della terra padana. Amico! Stai fumando le Gitanes mais, io dissi, tra l’allegro stupore dei presenti. E fu tutto un racconto. Del perché e percome uno sceglie quell’accattivante mostriciattolo il cui composto è una micidiale mistura di foglie di tabacco e carta di frumento o granoturco.
Accesa la singolare sigaretta, inali quel fumo acre che scende verso i polmoni quasi a cercare l’approdo sicuro verso un definito destino. Nella mia prima breve avventura in terra di Francia, all’ inizio degli anni sessanta – un trimestre e poco più – ne assaporai il gusto e rimasi affascinato da quel sapore che ti riporta all’odore e alle radici della terra. Nella spensieratezza giovanile e irresponsabile dei vent’anni, una utopia chiedere di riflettere sulle nocive conseguenze di ogni aspirata follia. E sarebbe bastato un attimo per riandare al perché, prima del tuo espatrio verso la Savoia, pervasa dalle voci amiche dei boscaioli della bergamasca e della Valtellina, non fu più possibile salire con la tua Coppi verso il passo San Marco per poi scendere verso San Pellegrino incrociando Sotto il Monte, il villaggio natale del grande pontefice delle tue valli.
Già, un attimo che non arriva mai se non quando un fatto, un segnale, un brivido, un formicolio o poco più che sale dalla mano sinistra verso l’alto ove stanno i centri vitali del tuo essere, non ti avvertono all’unisono di qualcosa di buio e inatteso. A me capitò nei primi anni novanta del secolo scorso nel secondo mio soggiorno nella terra dei galli. La notte elettorale si era protratta sino alle prime luci dell’alba nelle stanze della rue Solferino in cui respiravi fumo e politica.
Nel salire le scale di legno a chiocciola verso la minuscola dimora del boulevard Magenta, ove abitavo, sentii suonare la campanella dei pompieri, segno evidente dell’imminente pericolo. L’ascesa al sesto piano – il palazzo non era dotato dell’ascensore – mi ricordò il respiro affannoso di Lacedelli e Compagnoni oltre gli ottomila della vetta nel film che celebrava la straordinaria impresa del k 2 himalayano. Salivo alla ricerca del giaciglio amico, o forse era nel mio immaginario, tant’è che, Dio volle, una mano amica mi afferrò e trascinò verso la meta. Abitava nello stesso palazzo. Si recava al lavoro. Un africano di colore, di quell’Africa legata all’esperienza coloniale francese di un tempo. O forse, chissà?, tunisino del deserto. Di quella terra da cui sono giunte quattro bare salutate con il pianto negli occhi dai parenti e dal presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi. Da allora, guardai con più attenzione alla mia vita. Oggi, sullo schermo del corridoio, ingiallito dal fumo, colgo l’attimo: l’ultima follia di cui è lordato il tempo dell’odio e del disonore.