C’è ancora domani è un film che pone una donna al centro, racconta la storia di tante donne e mostra un evento che ha significato la svolta per tutte le donne, una di quelle svolte che ha un peso non indifferente nella cultura e nella società di un Paese civile. Un inizio che sa di conquista e presa di coscienza collettiva dal quale non si può che migliorare. La stessa presa di coscienza che fa Delia, la protagonista del film dell’anno di cui Paola Cortellesi è sublime artefice a tutto tondo.
Lo scorso 18 marzo si è tenuta a Zurigo la prima di C’è ancora domani, al cinema Corso. L’evento, organizzato dalla MFD Morandini Film Distribution, ha registrato un immediato sold-out, come facilmente prevedibile. Paola Cortellesi non ha perso l’occasione di partecipare alla serata, non tanto per presentare il suo film – diciamo pure che non ha bisogno di alcuna presentazione! – quanto per incontrare e abbracciare la folta platea accorsa. È ormai prassi che l’attrice e regista si conceda dopo il film al pubblico, non solo per ringraziarlo, ma anche per accoglierne pareri e racconti.
“Solitamente si fa per un mese il tour di presentazione del film con parte del cast presente nelle sale, ma dopo il primo fine settimana era inutile farlo perché le sale erano piene e c’erano le file fuori dai cinema. Questa cosa della fila fuori dal cinema non la vedevamo da tanto tempo, quindi ero incredula. – ci racconta Paola Cortellesi durante il nostro incontro in privato – A quel punto ho chiesto alla distribuzione di non cancellare il tour, ma di cambiare gli orari e farmi andare alla fine delle proiezioni, per vedere il pubblico e ringraziarlo. Lì è nato il più grande regalo che ho avuto da questo film, poter incontrare le persone, vedere le loro reazioni, vedere che volevano parlare, raccontarsi, volevano condividere non solo con me ma anche con gli altri presenti le emozioni che stavano provando. Questa è la cosa meravigliosa che sta succedendo”.
“Incredula” è anche la risposta quando le chiediamo come sta vivendo tutto questo successo travolgente
“Però lo sto vivendo lavorando, perché questo film deve essere accompagnato e lo sto accompagnando in tanti posti, in molti Paesi europei, oltre che la Svizzera, in Francia, Belgio, Svezia, Olanda… È una cosa bellissima anche se davvero tanto impegnativa. Per me è un motivo di orgoglio quello che sta accadendo, non lo so se per il cinema italiano, penso e spero di sì, però resto ancora concentrata su quello che c’è da fare. Sono ancora lontana dal momento in cui ti fermi ad assaporare una cosa splendida che è accaduta, questo successo incredibile, questa ondata d’amore che ne è arrivato e questo gradimento assurdo da parte di chi ha visto il film.”
La risposta del pubblico, calorosa e commossa, è certamente uno dei motivi del successo di C’è ancora domani. Ma non l’unico, il “film della Cortellesi” – come viene anche chiamato – è un film d’attualità “vestito” di passato, non solo perché ambientato nel ’46, ma anche stilisticamente per l’uso del bianco e il nero, il riferimento al neorealismo. Poi affronta temi di grande attualità e contemporaneità, con il proposito di guardare al passato per affrontare il presente e migliorare il futuro.
“Era proprio quello il mio intento: fare un film contemporaneo, ambientarlo al passato e capire cosa ne è rimasto, quello che non c’è più e cosa invece resta di quel periodo. Quali fossero le opportunità in quell’epoca a specchio con quelle che ci sono oggi e quanto non le vediamo, mentre come una sola opportunità di allora significasse una rivoluzione, sia a livello personale, che nei confronti degli altri. È un viaggio nel passato, ma anche nella contemporaneità, ma soprattutto il viaggio di questo film è all’interno della testa di una donna che era madre, moglie e schiava. La protagonista ricopre e si riconosce solo in questi ruoli, non è autodeterminata, non ha una forza e pensa di non valere nulla, è quindi un viaggio all’interno della consapevolezza di questa donna”.
A proposito della protagonista, Delia, non sorprenderà che non sia ispirata ad una figura femminile particolare, ma il personaggio nasce grazie a quei racconti che la regista ascoltava dalle viva voce delle nonne, che anche se non avevano lo stesso vissuto di Delia, ne condividevano certamente condizioni e convinzioni.
“Una mia nonna terminava ogni suo racconto con ‘ma che capisco io’, sminuendosi, ed era, invece, una donna meravigliosa, non colta, aveva la terza elementare, ma era una di queste donne che nessuno ricorda ma che hanno lavorato e amato incondizionatamente. Lei per fortuna è stata a sua volta molto amata, dai figli e dai nipoti, ma anche dal marito, però era comunque una donna sottomessa, il suo era un ruolo subalterno. Anche nelle migliori famiglie, dove non c’era violenza, comunque la donna accettava e sapeva, sin da bambina, di avere un ruolo subalterno. Ci sono donne a cui nessuno pensa e alcune di queste, le più sfortunate, sono state trattate come la nostra Delia e nessuno le ricorderà mai, pensa che crudeltà! Io volevo raccontare di queste donne che hanno fatto il nostro Paese, la struttura della nostra società, per poi essere trattate da subalterne quando tornavano i loro ‘padroni’.”
Ne esce così un omaggio affettuoso e carico di gratitudine alle donne di quell’epoca
“Sì, l’ho scritto anche in una nota, che ho pensato alle nonne, alle nostre bisnonne, quelle che non ricorda nessuno, che hanno pensato di essere delle nullità e che hanno costruito il Paese, che però non sono menzionate come delle eroine, come le grandi donne che hanno fatto la Costituzione, che ci hanno salvato perché hanno fatto sì che noi avessimo dei diritti, una a caso la nostra grande Nilde Iotti.”
L’artista romana ha pensato a un film trasversale, che colpisce tutte le età, tutti i livelli sociali e culturali. In sala a Zurigo una ragazza ha testimoniato come si sentisse coinvolta e accomunata alle sue vicine di posto pur non conoscendole, come pur essendo di tre generazioni diverse condividevano gli stessi sentimenti, la stessa commozione. In questo è un film potente. Ma non pensiate che si pianga e basta: nel suo film d’esordio come regista, Paola Cortellesi non ha rinunciato alla sua irresistibile attitudine di mostrare e raccontare storie anche in chiave comica, sicuramente una scelta vincente e che le appartiene profondamente. E anche in questo caso, dove si affronta un tema così delicato, non ha mai messo in dubbio l’uso della comicità e dell’ironia.
“No, mai! Io volevo fare un film dove ci si potesse anche divertire, non tanto sul tema della violenza – infatti non è lì dove si ride – però su quanto ridicola e strana a volte può essere la vita. Nei racconti di mia nonna c’erano anche i racconti della ‘sora’ che spiavano e di cui si parlava nel cortile dove tutti sapevano tutto dei cavoli degli altri. In questi racconti c’era sempre un pizzico di ironia, non so se con quel tono che forse appartiene a noi romani, che buttiamo tutto un po’ in ‘caciara’, come diciamo noi. E questo è un po’ il tono con cui mi sono formata e cresciuta e so affrontare quel tono nella scrittura, mentre nell’interpretazione è quello che mi piace di più, poi se ho un altro compito lo posso assolvere in altro modo. Ho voluto che tutti sentissero la libertà di ridere, sin da subito. Per quello lo schiaffo iniziale – l’unico che si vede – per dare il permesso di ridere, altrimenti si sarebbero potuti sentire in imbarazzo per tutto il film. Io, il mio film, lo volevo raccontare così e volevo che ci fosse anche il ridicolo di tutti i giorni, quello che succede nel cortile, il personaggio buffo, per esempio Alvaro (interpretato da Lele Vannoli, ndr) che è esistito davvero. Tante storie arrivano dai racconti che ha vissuto mio papà da piccolo. Oppure la scoperta di questi ragazzoni americani, belli, sani, con tutti i denti, che le nostre ragazze non avevano mai visto perché i nostri ragazzi venivano dalle guerre, mal nutriti, ridotti male. Inoltre molte cose venivano raccontate con leggerezza perché, purtroppo, erano vissute come normali, accettate e anche giustificate, come quando Delia dice “poverino, ha fatto due guerre” e l’amica Marisa, la splendida Emanuela Fanelli, giustamente risponde “ma che poverino, quello è proprio stronzo!”. Volevo raccontare anche le cose che fanno sorridere, quelle ridicole della vita, perché la realtà ha più sfumature, non è solo drammatica, anche se l’argomento principale del film lo è.”
C’è anche un notevole lavoro di studio sociologico dietro, tanto che per alcuni episodi si attinge dai racconti della gente comune che hanno vissuto in quel periodo e la creazione di alcuni dei momenti più importanti – come l’incontro di Delia con un soldato americano di colore – rivelano origini esilaranti
“La storia del soldato americano di colore, per esempio, viene da una signora di 90 anni che abbiamo intervistato e ci ha raccontato dell’incontro con questo soldato, non per strada come accade a Delia, ma all’interno di un ospedale americano dove era stata ricoverata per via di una scheggia vagante e lì vedeva questi soldati americani con sta pelle stupenda di cioccolato e ci diceva che si innamorava di tutti. La signora aveva ‘l’ormonella’ a 13-14 anni e vedeva da una parte questi belli biondi, con sti pettorali cresciuti a pane e burro d’arachidi e poi diceva ma son belli pure quelli scuri con sti denti curatissimi e non sapeva dove guardare prima…”
Alla fine del film si rimane certamente colpiti, eppure si parla di violenza domestica, un argomento attualissimo e che ci ha abituato ad epiloghi anche peggiori di quello che si vede nel film. Eppure il pubblico nella sale rimane inaspettatamente colpito, proprio come nello schiaffo iniziale, come mai?
“Questo argomento è un nervo scoperto per le persone che si aspettavano questa storia. Anche se non è una storia tratta da un reale fatto di cronaca, tra gli italiani quello della violenza domestica è un argomento molto presente grazie alla cronaca che ci dà conto delle notizie, perché per fortuna su questo l’Italia fa un buon lavoro mentre altrove non sono così informati, quando invece informare è fondamentale. Poi però la violenza domestica è sempre trattata come un tabù, o se ne parla per protestare – da parte delle donne soprattutto! – o se ne parla per coinvolgere le persone che non sono interessate, penso per esempio a quegli uomini che sono lontani da questa realtà perché nelle loro famiglie non capita e per questo non se ne occupano. In questo caso sono invece stati coinvolti tutti, tutti hanno ritrovato un po’ della storia della propria famiglia, non necessariamente violenta come quella della vita di Delia, ma un pezzettino della vita di cortile, un pezzettino di quello che accadeva alle loro nonne, un pezzettino di quel modo di parlare che si ritrova anche nel presente, tant’è che molte giovani 20enni del pubblico riescono a cogliere il contemporaneo di questo atteggiamento. E poi sicuramente l’umorismo ha fatto tantissimo, perché tutti sin dall’inizio si sono sentiti liberi di ridere e di deridere i cattivi, gli aguzzini di questa storia che sono due idioti, Ottorino e Ivano (suocero e marito di Delia, ndr) che ho voluto appositamente presentare così ridicoli e gli attori sono stati eccezionali a calarsi in questi panni così particolari.”
E proprio Ottorino, in quel dialogo “edificante” tra padre e figlio, che dice che Delia “se deve imparà a stare zitta”. Nel finale Delia finisce davvero “a bocca chiusa”, ma non è proprio nel modo che intendeva il vecchio suocero. È un finale eloquente, che dice tanto, anche se “a bocca chiusa”, ci suggerisce
“Proprio quello che dice il bellissimo testo di Daniele Silvestri: ‘guarda quanta gente c’è, che sa rispondere dopo di me a bocca chiusa’. È un finale di presa di coscienza e di parola collettiva. Lei ha avuto una parola esercitando il suo diritto di contare, ha avuto parola per la prima volta. E lì non è stata a “bocca chiusa” come tutti gli hanno detto, tra cui Ottorino. Le parole del vecchio suocero le abbiamo strutturate anche in base a quel finale, la canzone era già nella sceneggiatura perché volevo chiudere il film esattamente come l’ho chiuso.”
Così la parabola della svolta di Delia corrisponde un po’ anche a una svolta personale di Paola Cortellesi. La sua storia artistica davanti alla macchina da presa è ben nota, sappiamo inoltre che è sceneggiatrice di diversi film, anche questo porta la sua firma insieme a quella di Furio Andreotti e Giulia Calenda, ma C’è ancora domani è la sua prima prova come regista. Allora viene spontaneo chiedere cosa le ha fatto capire che era giunto il momento di mettersi alla prova nella regia.
“L’ho capito quando da sceneggiatrice non volevo più lasciare andare le cose che scrivevo. Volevo tenerle e che fossero mie. Mi sono detta, la prossima storia voglio raccontarla e girarla come dico io! In un certo modo, sono già stata dietro la macchina da presa come sceneggiatrice, ma da regista ci sono delle responsabilità che non si hanno da sceneggiatrice, ed erano proprio queste responsabilità che mi volevo prendere e avere io le decisioni in merito!”
Chissà se Paola Cortellesi si rende conto che lei e il suo film rappresentano una nuova svolta per tutti noi. Non c’è stato tempo di chiederglielo perché il tempo è sempre poco quando c’è tanto di cui parlare. Ma C’è ancora domani è senza dubbio la svolta che tutti attendevano senza neanche saperlo e lei è la migliore promotrice identitaria che poteva capitarci. Ci sono persone che si trovano a vivere momenti storici che rappresentano una svolta necessaria, che avvia tutto un processo di consapevolizzazione dei diritti collettivi, del proprio valore mai inferiore ad altri. Nel ’46 accadeva a tutte le donne che decisero di prendere parte in maniera attiva alla vita politica della nazione, decisero di valere, alla pari di un qualsiasi cittadino uomo mai privato di certi diritti, da qui una nuova consapevolezza del proprio valore. Oggi Paola Cortellesi grazie al suo film ci pone di fronte tante consapevolezze: che le svolte esistono e sono possibili; che un futuro migliore è sempre necessario, che le brutture della vita non le merita nessuno e bisogna fare qualcosa. Quella notte dei miracoli che vive Delia quando prende coscienza del proprio valore e che altre dopo di lei, prima fra tutte la figlia, meritano e potranno avere un futuro migliore.
Allo stesso modo la svolta è anche nello stile: Paola Cortellesi ci mostra che sono possibili i riferimenti a periodi storici che ci sembrano di altre epoche ma parlano di attualità. Che l’uso del bianco e nero non è superato, ma può essere svecchiato e soprattutto ricco di sfumature insospettabili. Che la musica, così ben inserita in quel continuo richiamo al passato e alla contemporaneità, può essere la scelta più azzeccata che si possa fare e a volte dice più di mille dialoghi. Che non è necessario che la violenza venga per forza mostrata ma può essere evocata in una danza surreale che certamente non è meno terrificante. Che l’uso del registro comico non sminuisce l’argomento, ma anzi lo rende più accessibile, per dire se ne può parlare e perfino ridere, l’importante è prenderne atto perché certi lividi ci sono, anche se non li vogliamo vedere e li nascondiamo, come quelli di Delia che magicamente scompaiono, ma esistono.
Cortellesi in maniera ferma ma discreta, delicata ma pungente, scopre quei lividi, li mostra e vuole che se ne parli, perché dal confronto diretto si può iniziare un nuovo processo che ci porta ad essere sempre più consapevoli. Ed è questo che accade quando il pubblico, alla fine della proiezione, si alza e applaude la regista, sentendosi libero di poter mostrare i propri lividi, condividendo la propria esperienza e il sentimento comune che fa dire: grazie Paola!
La svolta di Paola Cortellesi è in questo e molto altro.
Testo/Intervista: Eveline Bentivegna
Foto: Gloria Bressan, www.byphotoz.com