Il 16 dicembre è una data che l’India non dimenticherà facilmente. Quel giorno, infatti, una ragazza di 23 anni che si trovava su un pullman con il suo fidanzato fu picchiata, violentata, torturata e infine gettata dal finestrino del pullman in corsa. Il fidanzato subì la stessa sorte, la differenza è che mentre la ragazza fu portata in ospedale a Singapore e dopo nove giorni morì tra atroci sofferenze, lui se la cavò con qualche osso rotto.
L’eco di quel brutale ed efferato delitto colpì la coscienza di tantissime donne e uomini che scesero in piazza a Nuova Dehli e manifestarono a milioni. Una marea di gente mai vista. Le manifestazioni si propagarono in tutta l’India e in tutto il mondo si levò un grido di solidarietà. La misura era colma. In India lo stupro era (ed è) un atto quotidiano, al punto che gli stessi politici si stupirono dell’enorme risonanza che ebbe la morte della ragazza. Lo stupro era (ed è) talmente diffuso che nessuno o pochissime erano le denunce, il cui esito era ed è quasi sempre scontato: o non si dava e non si dà credibilità al racconto della malcapitata di turno oppure si archiviava il fatto dopo un’indagine mandata avanti per forza d’inerzia.
Si vede, però, che la rabbia per un delitto tanto diffuso quanto poco denunciato covava da tempo e a dispetto, anzi, grazie proprio alla sua odiosità di solito rimasta impunita, e dunque la coscienza delle donne e anche degli uomini si ribellò fino a scuotere la nazione. Nel mese di aprile di quest’anno, dopo appena quattro mesi, è stata approvata una legge che ha introdotto la pena di morte per stupro. Mentre prima la pena di morte rimaneva nel codice penale solo per “i casi rari tra i più rari”, ora è stata estesa allo stupro, che in India è come lo scippo in alcune città mediterranee.
I sei stupratori furono tutti arrestati. Uno, minorenne, ha subito una condanna a tre anni di riformatorio, un altro, l’autista, fu trovato morto impiccato in cella, gli altri quattro sono stati condannati in primo grado alla pena di morte. Il giudice che ha letto la sentenza ha dichiarato: “Questo caso ha scosso la coscienza nazionale e questo tribunale non può chiudere un occhio, soprattutto quando i crimini contro le donne sono in aumento giorno per giorno”.
Anche se si tratta solo del giudizio di primo grado (ce ne sono altri due), una buona parte dell’opinione pubblica ha applaudito la sentenza dicendo “giustizia è fatta”. Le cronache hanno riferito che la stessa ragazza violentata e torturata, sul letto di morte, aveva augurato ai suoi aguzzini la pena di morte. Anche da noi, di fronte ad una strage o ad un atto di violenza particolarmente efferata una parte dell’opinione pubblica invoca la pena di morte, che non è contemplata dal codice. La realtà è che di fronte a questi casi convivono tre atteggiamenti che hanno a che fare con l’emotività (efferatezza del delitto), la ragione (la pena commisurata al delitto e comunque con esclusione della pena di morte) e l’emergenza sociale.
In India la pena capitale per stupro è entrata nel codice per emergenza sociale (se non s’introduce un deterrente forte, non si combatte con efficacia una prassi odiosa come lo stupro). Ma la pena di morte riuscirà ad essere davvero un deterrente? A giudicare dalla legislazione in vigore nei Paesi limitrofi e in genere di religione e cultura musulmana e dal fenomeno irrisolto, non si direbbe. Con la legge del taglione, non si va molto lontano (con “occhio per occhio” si rischia di diventare tutti ciechi). Permettere, d’altro canto, che dei delinquenti se la cavino con qualche anno di galera non fa altro che ingenerare il senso di impunità del delitto. D’altra parte, forse ha ragione Veronesi quando dice che le cellule cerebrali di una persona dopo vent’anni non sono più le stesse e che dunque va abolito l’ergastolo perché è cambiata la persona che ha commesso il delitto, dare perciò un congruo numero di anni di carcere e poi garantire la certezza della pena, forse è la soluzione che risponde meglio sia alla giustizia che alla civiltà del diritto.