La giornata è splendida.
E sin dal primo mattino i raggi del sole invadono Piazza di Monte Citorio colorando il travertino dei palazzi che fanno corona alla casa della democrazia italiana di un rosa che sa di augurio per quello che accadrà di lì a poco. Nella notte precedente una ventina di operai specializzati si sono cimentati nell’allestimento del palco destinato ad accogliere le personalità delle istituzioni e della politica. Non è stato un addio. Al contrario, una festa per salutare il poeta del popolo, il ribelle, il ragazzo cocciuto e appassionato, il figlio di una terra arcigna e ingrata, il sognatore che si oppose alla svolta di Occhetto poiché amava parlare alla luna mentre attorno a lui finiva una storia che aveva avvinto tanti figli di un medesimo destino politico e umano.
Lui non volle arrendersi alla dura realtà degli avvenimenti di quell’ottantanove del secolo scorso, l’anno in cui crollò un muro e con esso le illusioni di milioni di uomini e donne che avevano creduto nell’utopia comunista destinata a cambiare il destino dell’umanità. Pensava, come tanti, alla cattiveria umana come la sola responsabile del fallimento.
E perciò si ribellò a quelli disposti a chiudere una pagina della loro vita per andare verso l’ignoto giunto sino ai nostri giorni. Un mondo senza più valori che non siano quelli del perseguimento dei soli interessi in campo: il raggiungimento del successo dentro una società ormai divisa tra quelli che hanno vinto e i perdenti a cui nulla è dovuto se non una distratta e compassionevole occhiata, ipocrita e immorale. Nessuna tristezza, nel saluto a Pietro Ingrao, il tribuno del popolo, il dirigente e politico destinato a reggere la presidenza della camera dei Deputati nel periodo più cupo del terrorismo criminale: il rapimento e l’ assassinio di Aldo Moro e della sua scorta.
Nessuna tristezza. Ma autentica commozione per quel poeta e politico popolano che ha vissuto oltre cento anni per raggiungere il sogno della luna che lui, giovanetto irrequieto e ribelle, chiese in dono al babbo in cambio della serale obbedienza. Nessuna tristezza perché è come se lui fosse ancora lì in quella Agorà in cui lui ha combattuto le migliori battaglie della sua lunga vita. È ancora tra noi mentre il suo vecchio compagno, Alfredo Reichlin, lo saluta e gli rammenta la vita assieme come se fossero ancora in un villaggio dei colli albani o della Sila a riesumare esperienze di lotte operaie e contadine attorniati da lavoratrici e lavoratori estasiati ai racconti.
È ancora lì in ascolto dei commossi ricordi di Don Ciotti e Ettore Scola. E forse si commuove pure lui, quel grande vecchio, che ci ha lasciati in un ultimo respiro, così lieve da sembrare la carezza del fiocco di neve che scende all’abbraccio della madre terra. Nessuna tristezza. Ma un ultimo incontro con il suo popolo accorso a salutarlo munito dei suoi stendardi e delle sue bandiere. Ero lì anch’io. E non sapevo se gioire o essere triste. Rammentavo le tante occasioni in cui ebbi la ventura di conoscerlo.
Di apprezzare quello strano personaggio, così sapiente e acculturato da godere dell’amicizia e della collaborazione dei giganti della cinematografia quali Luchino Visconti e Ettore Scola, quanto popolano e umile persino in quel fisico minuto e in quello sguardo acuto in un viso rugoso e arcigno, marchio delle genti dell’ Agro Pontino use violentare la terra ingrata dall’alba al tramonto. Lo accompagnai tanti anni fa a Lugano all’incontro con i socialisti ticinesi accorsi ad ascoltare il dirigente della sinistra italiana che non aveva smesso di raccontare l’utopia dei puri e dei giusti. Citò più volte Martin Luther King, Willy Brand e Antonio Gramsci. Avevano il coraggio di osare e la virtù del dubbio, disse di quei grandi personaggi della storia passata e recente.
Il giorno seguente prendemmo il treno per Zurigo. Parlammo di tante cose. Fu interessato alla storia mia personale. Del ragazzo figlio di poveri contadini che aveva cercato, anche lui, la luna, nelle terre d’Europa e del mondo. Poi, silenzioso, estrasse dalla vecchia borsa di pelle dei foglietti di cui annotò la causale e l’ammontare. Curioso, ne chiesi il motivo che lui liquidò con apparente noncuranza: le spese della trasferta in Ticino. Che uomo!
Di lì a poco saremmo stati a Zurigo. Una grande folla di emigrati in festa lo attendeva alla Volkshaus. Parlò alla ragione e al cuore di ognuno da sembrare che li guardasse negli occhi. Buon riposo, Pietro Ingrao. Ci hai lasciato un buon nome.