Regnava allora in Antiochia, non si capisce bene a quale titolo, tanto sono approssimative le fonti, un certo Quintiliano. Aveva costui una figlia, che, balorda com’era, mentre dormiva permise a un drago nero di scenderle fino allo stomaco, per tre volte di seguito. Finalmente accortasi del pondo, il terzo giorno latrò dal dolore; e il re suo padre, svegliato nel cuore della notte, ne fu tanto turbato quanto impotente. Che fare? Che razza di fenomeno era mai quello? Di che natura era il drago che si era incarnato in sua figlia? si chiese; ignorando, non diciamo il simbolismo psicanalitico, ma persino l’esibizione di un mostro ben presente alla coscienza cristiana, che lo battezzava Satana, Belzebù, o con altro più grazioso epiteto.
La madre, teatralmente, si lacerò le vesti dalla disperazione; seguita, in tanto strazio, dalla compartecipe e per nulla invisa imitazione delle concubine. E sempre per solidarietà, tutta una folla si radunò davanti al palazzo: tanto l’arcano che scuoteva il ventre della donzella poteva sulla fantasia popolare, sempre generosa di ospitare il vacuo blaterare dei pronostici; e assetata, allora come oggi, di ciarle e dicerie.
Un simile cancan non poteva non pervenire alle orecchie del pur itinerante esattore: che, quantunque in marcia da paese a paese, ebbe anche a lui novella della tetra gestazione; per subito comprendere che, là dove la medicina arretrava, poteva giungere solo la mano che per semplice imposizione aveva restituito la vista al suo servo. E prontamente andò a suggerirla al re, sperando di trarne, non disgiunta da venali prebende, un supplemento di lode.
“Sire, persino nella mia erranza è giunta eco della sorte toccata alla principessa; né mi sarei permesso di incomodarti, se non conoscessi il rimedio sicuro al male che l’assale.”
“Parla, dunque,” lo autorizzò il re, legato all’esilità della disperazione, e ormai disposto a tutto. “Se nessun medico ha saputo trovare, nonché un farmaco, nemmeno una causa, non arretrerò certo davanti alla speranza.”
“Ecco,” disse l’esattore, con l’aria di chi la sa lunga. “Se oso sbilanciarmi, è perché in tutte le terre che ho visitato per conto tuo, e in tutti i villaggi dove ho riscosso le imposte, mai mi è capitato di incontrare una persona paragonabile a Giovanni: l’unico, ne sono certo, che può operare il prodigio.”
“Perché lo ritieni in grado di farlo?” si stupì il sovrano. “Si tratta di un monaco o di un laico?”
“È un sacerdote, tanto gradito a Dio che le forze della natura non possono contrastarlo.”
“Da cosa lo deduci? Ha forse compiuto qualche portento?”
“Molti portenti, non uno. Giovanni conosce i peccati delle persone prima che vengano a lui, e scaccia dai corpi gran quantità di demoni. Io stesso ne ho costatato il potere, quando fui in Egitto insieme al mio servo orbo da un occhio. Avendone sentito parlare, anche se con molte riserve mi recai a fargli visita, per supplicarlo di restituirgli la vista. Giovanni pose semplicemente la mano sul volto del servo, e subito lo sguardo spento rifulse.”
“Se quello che dici è vero, e la tua testimonianza è fedele, allora non perdere tempo” si esaltò il sovrano, già pronto a credere. “Domattina partirai con otto uomini e una lettera di accompagnamento per il vescovo d’Egitto, affinché mandi qui questo Giovanni, a guarire mia figlia e a benedire la mia corte.”
L’indomani, nel momento stesso in cui l’ufficiale si disponeva a partire, Giovanni, grazie a un sms delle poste celesti, già aveva ricevuto notifica della sua missione. Non avendo tuttavia intenzione di affrontare un faticoso viaggio ad Antiochia, e vittima del mal mare, ne chiese dispensa a Dio.
“Signore Onnipotente! Tu sai che io celebro con tutto il cuore le tue opere e la tua giustizia. Ma ora, mio Signore, se posso osare, fa’ che io non debba recarmi ad Antiochia. Se tuttavia questa è la tua volontà, a te appartiene la gloria e la decisione.”
Non aveva finito la preghiera, ci garantisce il biografo Giulio, che si replicò per lui il prodigioso evento occorso a Elia e ad Eliseo: poiché, nella medesima postura ritta in cui pregava, fu avvolto da una nuvola di luce che lo sollevò dal suolo, e ipso facto lo trapiantò accanto al letto del re di Antiochia: il quale, svegliatosi di soprassalto, ci restò quasi secco.
“Non avere paura!” lo rassicurò bonario Giovanni, a cui lo Spirito di Dio ispirava, come un giorno aveva potenziato gli apostoli col raro dono della polilalia, di esprimersi in perfetto latino. “Ma dimmi, piuttosto: mi conosci?”
“No, mio signore. Non ti ho mai visto,” e già il re parlava come un servo.
“E allora sappi che io sono Giovanni, colui che oggi hai mandato a cercare in Egitto. Che cosa ti ha spinto, dimmi, a stancare uomini sulle mie tracce, dal momento che io posso essere qui in un baleno?”
“Mio signore,” disse il re abbacinato, “è stato il mio legittimo desiderio di amore paterno, che tu possa guarire mia figlia. Ma tu, invece, come hai fatto ad arrivare così in fretta, ancora prima che l’ambasceria sia partita?”
“Sono qui per intervento del medesimo Dio che introdusse Abacuc, con tutto il cibo che aveva in mano, nella fossa sigillata dei leoni.”
“Ieri ho sentito con le mie orecchie dei tuoi prodigi. Oggi li vedo con i miei occhi,” si prosternò il sovrano davanti a Giovanni, impaziente di mostrare quanto sapeva fare.
“Allora non perdere tempo. Alzati, e fai venire qui tua figlia e la tua sposa.”
Appena la ragazza fu in sua presenza, insiste il candido Giulio, il santo le ordinò di aprire la bocca; e introdottovi un bastone perlustrò la gola, dove il drago, mordendo alla verga, abboccò come un pesce. E allora, ritirando l’asta, Giovanni trasse fuori con essa anche la bestia che le si avvinghiava, davanti allo sguardo stralunato del re: che, a garanzia di future possessioni, chiese in supplemento la benedizione della regina. Cosa che Giovanni non esitò a fare, senza mancare di aggiungere irrichiesti consigli di buona condotta.
“Fai del bene alla tua anima, o re, e non operare violenza. Sii gentile con la tua corte, perché il tuo ultimo giorno si avvicina, e presto dovrai riunirti ai tuoi padri.”
Per tutta ricompensa di questa lieta profezia, il re gli allungò una manciata d’oro; quindi, afferrandolo per la cintura, tentò di trattenerlo. Ma la stessa nube dell’andata riavvolse Giovanni per il viaggio di ritorno. E mentre il sovrano scrutava un’improbabile preda nella cinta vuota, il santo, con la velocità della luce, si materializzava nella capanna di partenza, dove Simeone, che l’aveva perso di vista nel tempo incalcolabile dell’assenza, nel ritrovarselo di nuovo davanti non poté non stupirsi.
“Dove sei stato, santo padre?”
Al che Giovanni, che oltre alla santità non mancava di una certa dose di umorismo, omise per modestia di cantarsi le lodi.
“Ma me ne sono rimasto a cuccia nel pagliaio di sopra, fratello mio. Non ho abbassato la scaletta, né ho aperto la porta per uscire.”
Ma Simeone, furbo anche lui, e certo che gatta ci covava con uno stinco di quella fatta, lo supplicò di narrargli la vicenda. E Giovanni, dopo aver gustato, oltre la palma del successo, anche la sublime ebbrezza della modestia svelata, gli raccontò per filo e per segno ogni cosa.
A questo punto tutto aveva ottenuto Giovanni dalla benevolenza divina. Ma affinché la sua vita si chiudesse nella perfezione, gli mancava, oramai, soltanto lo sfragis del martirio.