Scatterebbe solo con l’aggravarsi della guerra civile in Siria, ma la proposta è frenata dall’atteggiamento contrario di Russia e Cina
La Lega araba ha sospeso la Siria dall’organizzazione e questo è un segnale molto chiaro. La Siria, e in particolare Bashar Assad, si è macchiata di colpe non più tollerabili, ma il presidente siriano non sembra volersene dolere. Ormai il suo orizzonte è uno solo: vincere la rivolta, a qualsiasi costo, anche a quello di compromettere comunque la sua legittimità a restare a capo della Siria in futuro per crimini commessi dal regime. Le cronache non lasciano ombra di dubbio: chi non fa quello che vuole il regime, sia pure manifestare a suo favore per puro atteggiamento di facciata, rischia la morte, come è successo ad un giovanotto in una scuola. Se avvengono questi misfatti, vuol dire che siamo alla resa dei conti. La Libia, evidentemente, non ha insegnato nulla a Bashar Assad. Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha parlato di “guerra civile” e di guerra civile ha parlato anche il ministro degli Esteri turco, Ahmed Davutoglu. Dopo la contrarietà di Russia e Cina ad una risoluzione Onu, è proprio la confinante Turchia che potrebbe lanciare una controffensiva contro il regime siriano. La Turchia è quel Paese che subisce più di tutti le conseguenze di una situazione che si aggrava sempre di più di settimana in settimana, perché gli sfollati siriani si ammassano alla frontiera nella speranza di poter passare dall’altra parte e trovare un po’ di pace e di sicurezza. Insomma, la Turchia sta diventando un po’ come l’Italia dopo l’intervento Onu in Libia, con centinaia di barconi che dal Nord Africa puntavano su Lampedusa in cerca di sicurezza e di pane. Solo che la Turchia non è disposta a pagare i danni di una simile invasione e sta cercando di trovare una soluzione. Quella più a portata di mano è la sempre più decisa contrarietà alle risposte di violenza nei confronti dei civili da parte del regime. Finora, però, la voce grossa non ha avuto nessun risultato. Ad Ankara si sono rifugiati anche alcuni capi della rivolta in cerca di protezione contro le vendette del regime e anche per organizzare la controffensiva. Proprio qualcuno dei leader della rivolta ha rivelato la possibilità che la Turchia possa farsi parte attiva nella definizione di una zona cuscinetto di circa cinque chilometri in territorio siriano, a nord di Aleppo, dove da una parte possano confluire i profughi, dall’altra possa essere organizzata la controffensiva dei rivoltosi, un po’ quello che Bengasi ha rappresentato per la Libia di Gheddafi. Il progetto è stato confermato anche dalle autorità turche. Il problema, però, è politico e militare nello stesso tempo. La Turchia non vorrebbe unilateralmente imbarcarsi in un’avventura che potrebbe anche avere sbocchi pesanti, vorrebbe invece che ad assumersi l’onere di creare una specie di no-fly-zone fosse la comunità internazionale e in particolare l’Onu. La quale Onu, come abbiamo detto, si trova nell’impossibilità di decidere perché ogni decisione del Consiglio di sicurezza non può essere presa in presenza di un veto che uno dei cinque Grandi (Usa, Russia, Cina, Francia e Inghilterra) hanno a disposizione. La Turchia, pur di non intervenire lei in maniera diretta e unilaterale, vedrebbe di buon occhio un intervento extra Onu, ma nessuno, evidentemente, è disposto ad assumersene la responsabilità. Ecco perché la Turchia – ma non solo – auspica che a questo punto la determinazione dei manifestanti – ricordiamolo, sponsorizzati dai Fratelli Musulmani, il partito islamista non certo sempre moderato – sia tale da fare un salto di qualità (e di quantità), magari con la fornitura di armi da parte di alcuni Paesi arabi che non tollerano più lo spettacolo tragico che il regime di Assad sta mostrando a tutto il mondo. In questo modo, con l’aggravarsi della situazione, cioè della guerra civile, anche la Russia e la Cina potrebbero prendere atto della situazione di non ritorno e ammorbidire la loro contrarietà, permettendo così un epilogo meno traumatizzante del braccio di ferro che ormai dal mese di marzo sta andando avanti tra i manifestanti e il regime. Già molti profughi accolti nel centro di accoglienza di Antakya hanno organizzato un “esercito libero” per poter sostenere politicamente e militarmente la protesta popolare, seppure dall’esterno, almeno per ora. Il mondo, insomma, sta a guardare, pronto, però, a cogliere i primi segnali di via libera all’intervento internazionale o a quello, delegato, della Turchia, qualora non ci dovessero essere altre possibilità prima che il bagno di sangue diventi un orrore che segnerà la storia del mondo. Ormai la resa dei conti non potrà essere rinviata di molto.