E nel dire questo, Aurelio, che pure aveva avuto modo di prepararsi all’incontro, riattualizzò quella conoscenza nei modi della sua memoria, e la rivide da un diverso versante, legata alle sue dissimili emozioni. Poiché un’autentica svolta quell’evento aveva segnato nel suo cammino, di cui esistevano impliciti presupposti, ma che soltanto dialogando con Elena si erano coagulati intorno all’irreversibile ribaltamento della sua fede. Da quel giorno il suo tracciato aveva proseguito in un’altra direzione: e quello che doveva essere solo un incarico amichevole, si era trasformato in uno scarto risolutivo. Ché solo allora aveva inteso quanto poco la beffa della sorte partecipasse della misericordia divina; e come le certezze, pur screziate di qualche preventiva unzione di dubbio, possono crollare del tutto. E aveva inteso come il rigore dell’intelletto poggi su scaglie impazzite; e come le risolutezze impettite sono solo propositi; e come le repliche alla delusione o al dolore si articolino in difformi griglie morali, in obbedienza ai mostri psichici di cui sconoscono l’identità, e che ringhiano nei luoghi più curiosi, in una stonatura di discanto.
Aurelio ricordava la nube che gravava sulla partenza da Vindonissa, che nemmeno le esaltazioni del San Bernardino avevano saputo dissolvere, ispessendosi, al contrario, tra le gole della Via Mala, con la loro impervia minaccia. Ricordava quanto il tono con cui Costanzo gli aveva affidato la lettera per Elena, più che di confidenza sapeva di inespresso; e quanto su di essa, di cui ignorava il contenuto, si stendeva un turbamento di reticenza. D’altra parte, anche a non volersi immischiare nelle sue questioni private, l’amico lo stringeva all’omertà di mentire; e se pure Costanzo non gli aveva mai dato modo di dubitare della sua lealtà, e doveva pertanto avere valide ragioni, bastava l’imbarazzo stesso con cui gli aveva affidato il compito di comunicare a Elena che non l’avrebbe più sposata, a gettare sulla sua sincerità la chiazza di una bugia.
Tutta venata da quella perplessità si era svolta la sua cavalcata, visitata però da altre larve, emerse ad Aquileia, dove aveva soggiornato la prima volta al seguito di Carino che muoveva incontro a Diocleziano. Da allora, al cruccio per Costanzo, nuove punture s’erano mescolate; e il resto del viaggio s’era gonfiato di altre ombre, che l’avevano ossessionato nelle giornate seguenti, di tappa in tappa nei Balcani, lungo il medesimo percorso sul quale aveva seguito l’imperatore assassino, con in cuore lo strazio per Lucrezia trucidata e la brama di vendicarla. Finché a Viminacium, sublimando la rappresaglia in dovere, lo aveva trafitto mentre montava a cavallo. E benché ancora incapace, dopo tanti anni, di spiegarsi come mai quella belva, prima di morire, lo aveva risparmiato, considerava quanto lo aveva segnato per sempre; e che senza quella funesta disavventura di certo non avrebbe inseguito, in oscuri rigurgiti di espiazione o fedeltà, un destino che si alimentava di spettri.
Da tempo, in questa angheria della memoria, Aurelio aveva imparato a riconoscere la beffarda necessità per cui non solo delle persone che abbiamo amato, ma anche dei ceffi più ostici, o forse soprattutto di loro, si alimenta il nostro esiguo bagaglio mnestico. Molto di più persistono nei nostri instabili affetti le maschere che nicchiano sulle ore di impegno o di svago, squalificandole con l’omissione del merito, o spruzzandovi su il discredito della diffamazione; sollecitando, sia per curare il morbo dell’invidia che per esorcizzare la malabestia del malanimo, il consenso di altri mediocri, che ne gorgheggino i melismi del pettegolezzo.
Non diversamente l’ombra di Carino, l’uomo che più crudelmente lo aveva colpito, e che più di tutti aveva detestato, insieme alla persistenza delle sue perdite più care, continuava ad occupare i suoi pensieri. E oltre ogni suo proposito e desiderio, Aurelio sapeva che la fistola di quel miserabile l’avrebbe afflitto fino al termine dei suoi giorni, impressa nella sua carne come un sigillo di fuoco, e capace di determinare i moti del cuore come le astratte volate dell’intelletto, al pari di uno sfregio che sfiguri il viso per una volta e per sempre. Tale era l’imperio che il male conseguiva sul bene: come più agevolmente si dissolve la pienezza di un amore corrisposto nel traviamento seguente, obnubilando gli innumerevoli atti di tenerezza, e rendendo trite le parole prodigiose sussurrate un giorno nella penombra del focolare. Azzeramento da cui non si salvano, o al massimo persistono nel rimpianto, l’esotismo di una fuga ai tropici, o il culto della connivenza, la lacrima di una pensosa alleanza, o i collaudati snodi partecipati al lume di candela. Tutto spazza via, a suo favore, l’ingorda smania della novella fibrillazione; e se ne economizza residui, li relega nel sottoscala dell’indifferenza: da cui talvolta li rispolvera, ed è già un prodigio, il pungolo della giovinezza compianta. Che però, per l’amalgama stesso della sua chimica, li restituisce non già sotto i fremiti di un’emozione vitale, ma solo nella tossica pozione dei paradisi perduti. E quei sordidi tizzoncelli smorzati, già per essere sfregati dal rammarico, agiscono in maniera tanto caustica sulle ulcere, da impedirci di indugiarvi più di tanto. Così più nessuno rilegge le fandonie del trionfale epistolario di un tempo, non rispolvera le smorfie di una serata da sballo, né indugia sui cinematografici tramonti ormai stantii, mentre rievoca con disagio gestualità di domestica insignificanza.
E invece quanto più vivide incide l’assenzio delle ferite, delle offese che bruciarono il cuore, dell’oltraggio all’orgoglio, del tradimento, del disprezzo in cui mutò il valore di un giorno, del rifiuto a un atto di tregua! Come resiste la rabbia per l’incomprensione, voluta e affissa; per il rifiuto anche a uno scambio anodino; per l’ostilità che si accampa tra esseri un giorno complici, e ora disgiunti da steccati di malafede, e tanto arroccati sui isteriliti fortilizi, che nemmeno la morte saprebbe annullare il risentimento, o suggerire un augurio, se non di dolcezza o perdono, perlomeno di pace.
Così il male continua a imperversare, con inesorabile persuasione, ambiguo, camuffato sotto i molteplici assilli che escogita la difforme insonnia degli uomini, assumendo vezzose come turpi sembianze, solo in osservanza alla sua intrinseca legge. La stessa che, assecondando la sua intima spinta di indifferente necessità, pulsa solo per pulsare, senza obiettivi nobili o vendicativi. Che semplicemente annidandosi nelle cose, scoppia, inteso non a detergere le impurità del mondo, ma solo a liberare i gas che gli gonfiano il ventre; e col favore delle circostanze, refrattario alla metafisica dei costumi come al rigorismo della virtù, ai sofismi della prova ontologica come delle “cinque vie”, scioglie la sua ebete, persuasiva veemenza di devastazione.