Al processo d’appello Amanda e Raffaele sono stati assolti con formula piena ed è stata condannata la macchina della giustizia che ha portato ad una sentenza poggiata sul nulla
L’assoluzione nel processo di appello di Amanda Knox e di Raffaele Sollecito con formula piena (“il fatto non sussiste”) dall’accusa di aver ucciso Meredith Kercher pone due ordini di problemi che investono in pieno la giustizia, o piuttosto, la magistratura italiana. In Italia – è questa la lezione più triste – può capitare di finire in prigione per quattro anni senza che uno abbia fatto niente, soltanto perché si trovava nei paraggi di un omicidio, e tutto questo a causa del pressappochismo di magistrati, giudici, periti, forze dell’ordine e esperti – e che esperti! – del Ris. Due giovani sono stati sottoposti a quattro anni di sofferenze e nessuno paga per questo che è un autentico abuso. Dunque, sul gancio del reggiseno della povera Meredith vengono trovate tracce che, secondo gli esperti del Ris (la polizia scientifica), sono riconducibili a Raffaele Sollecito, fidanzato di Amanda Knox, studentessa americana che abitava nella stessa casa, seppure in stanze diverse, di Meredith, studentessa anche lei. Secondo gli stessi esperti, a casa di Sollecito viene trovato un coltello da cucina con tracce di Amanda sul manico. Nel bagno dell’appartamento dove abitava Meredith sono state ritrovate tracce di una scarpa attribuita a Raffaele Sollecito. I due, nell’ora dell’omicidio di Meredith, indicata dal medico legale, avevano i telefonini spenti, segno, secondo l’accusa, che erano intenti a cancellare le tracce di sangue e a risistemare la scena del delitto. Un clochard, meglio noto come consumatore di stupefacenti, avrebbe visto Amanda e Raffaele nelle vicinanze della casa la sera del delitto. Ecco, questi sono i principali elementi che hanno portato i magistrati ad accusare i due e a metterli in prigione per due anni prima del processo di primo grado, al termine del quale sono stati condannati l’uno a 25 anni e l’altra a 26. Nel frattempo, particolare non irrilevante, è stato condannato a 16 anni in via definitiva Rudi Guede le cui tracce biologiche sono state trovate sul corpo di Meredith (aveva fatto l’amore con Meredith che non voleva), e che, dopo il delitto, era fuggito in Germania. Iniziato il processo d’appello, il padre di Raffaele Sollecito nota delle stranezze sia nelle modalità di raccolta delle prove, sia nella certezza delle prove stesse. In poche parole, il giudice si convince che bisogna approfondire le tesi della difesa e nomina esperti del tribunale, quindi non della difesa, né dell’accusa, ma del tribunale. I risultati sono sconcertanti. Sul gancio del reggiseno di Meredith le tracce riconducibili a Sollecito non sono affatto a lui attribuibili. Il gancio è stato ritrovato ben 46 giorni dopo il delitto ed è stato toccato da un esperto che aveva un guanto con tracce di colore nero, mentre la procedura dice che i guanti devono essere bianchi. Sul manico del coltello trovato in casa Sollecito ci sono sì le tracce di Amanda, ma non quelle di Meredith sulla lama! E che potessero esserci tracce di Amanda su un coltello a casa del suo fidanzato era una cosa del tutto ovvia. Nel bagno di Meredith l’impronta della scarpa non corrispondeva alle dimensioni della scarpa di Sollecito (ma a quella di Guede) e quanto ai telefonini spenti, molto semplicemente, loro li avevano spenti perché quella serata l’avevano passata a casa di Sollecito a fare l’amore. Di fronte alla mancanza di prove – ritenute tali, invece, senza esserlo nel processo di primo grado – il giudice aveva due possibilità: confermare la sentenza di condanna di primo grado e perseverare in una serie di errori oppure assolvere i due perché non avevano commesso nessun delitto. Il giudice di secondo grado ha assolto i due e con questo atto di giustizia ha anche firmato la condanna ai magistrati, agli esperti, al giudice di primo grado che aveva imprigionato degli innocenti senza quella “prova al di là del ragionevole dubbio” che è il segno di una giustizia degna di questo nome. È stata condannata una giustizia pasticciona, insomma, quella stessa giustizia alla carlona che ha tenuto in prigione il fidanzato di Chiara Poggi, assassinata non da lui, ma da qualcun altro e nuove prove hanno accertato che il ragazzo diceva la verità quando ha raccontato i fatti precedenti e contemporanei al delitto; che ha condotto le indagini senza professionalità nel caso del rapimento Yara Gambirasio; che ha tenuto nascosto per venti anni un’intercettazione nella quale l’ex domestico filippino confessava di essere l’autore del delitto dell’Olgiata, e altri, tanti altri casi del genere. È mai possibile che tutto questo accada? È vero, purtroppo, e non è solo questione di ritardi paurosi, riguarda il rispetto delle regole, spesso calpestate, e soprattutto la pervicacia con cui, spesso, si inseguono ipotesi precostituite senza voler riconoscere che la verità può anche essere un’altra.