Il segretario Pd dice basta ai veti dei partitini, ai rinvii, ai riti defatiganti e inconcludenti della prima Repubblica
Le tensioni nel governo e tra i partiti che lo sostengono e il segretario del Pd Matteo Renzi hanno impresso un’accelerazione verso la crisi. Nei primi sei mesi del governo Letta il fibrillatore era Berlusconi, che prima insisteva su alcuni punti programmatici (in particolare l’abolizione dell’Imu sulla prima casa e la diminuzione della tassazione), poi sulla sua “agibilità” politica in seguito alla condanna in Cassazione. Come si sa, in ottobre il Pdl si è diviso con la formazione del Ncd di Alfano che ha puntellato il governo e il ritorno a Forza Italia che è passata all’opposizione. Il premier, ma anche gli altri partner di governo, dissero che con Berlusconi all’opposizione la maggioranza sarebbe stata “più ristretta ma più coesa”. Era un’illusione, perché con la vittoria di Matteo Renzi alle primarie del Pd le tensioni nel governo non sono diminuite ma addirittura cresciute.
Diciamo subito, però, che sono tensioni inevitabili, basta riflettere sulla posta in gioco. A costo anche di essere ripetitivi, i termini della questione sono i seguenti e non possiamo non seguire i ragionamenti, tra l’altro ad alta voce, di Renzi stesso, che dice: o il governo fa le riforme che chiedono gl’italiani o è meglio andare a votare. Ci sono riforme urgenti, le ha sollecitate il capo dello Stato da anni, ma non sono state fatte, è stata praticata sempre la politica dell’annuncio e del rinvio, con il risultato che l’Italia si trova nella situazione drammatica in cui è, per unanime ammissione. Aggiunge Renzi: vogliamo fare un contratto di governo che preveda punti inderogabili e che siano realizzati in un anno e poco più? Facciamolo, ma presto, l’Italia non può aspettare. Lui per primo ha indicato i punti: la riforma elettorale, le unioni civili, una nuova legge sull’immigrazione, una riforma del mercato del lavoro, i tagli alla politica con l’abolizione delle province e del Senato doppione della Camera, sostituito con un Senato delle autonomie, rappresentato da sindaci di grandi città, consiglieri regionali e personalità di altre istituzioni, tutti senza retribuzione perché già stipendiati dai rispettivi incarichi, la riforma del titolo V della Costituzione. Renzi, infine, dopo la bocciatura della legge elettorale da parte della Corte Costituzionale, ha proposto a scelta tre sistemi di voto (modello spagnolo, Mattarellum corretto e Sindaco d’Italia), rivolgendosi alle forze politiche dicendo: mettiamoci subito d’accordo, la legge si può fare in due settimane, basta “preamboli”, basta “convegni e seminari”, scegliamone uno che garantisca il bipolarismo e una maggioranza chiara che governi tutta la legislatura.
Di fronte al pressing di Renzi sono iniziati i giochi di posizione: questioni di metodo (Letta e Alfano: prima accordo tra partiti alleati), riflessioni sul merito (senatori Pd: seminari per affrontare il tema del Senato delle autonomie; senatori di Ncd, Popolari per l’Italia, Scelta civica: o sistema del Sindaco d’Italia o nulla), rinvio a febbraio del contratto di governo. Insomma, Renzi vede resistenze striscianti da più parti, per cui ha rotto gl’indugi e, in interviste e discorsi, ha parlato chiaro precisando che i partitini non potranno condizionare con il loro “zero virgola” un governo, come successe a Prodi nel 2006-2008, come è successo a Berlusconi nel 2011 o come succedeva regolarmente nella prima Repubblica. Dunque una legge chiara che non deve andare a favore né del Pd, né di Forza Italia, né di nessun altro partito, ma deve essere funzionale alla governabilità e alla democrazia. E così via, con le unioni civili, il mercato del lavoro e tutto il resto: o si arriva al punto o non ha senso continuare a rinviare. Letta, ha detto Renzi, non può continuare a vivacchiare.
Come si può immaginare, sono insorti Alfano e i centristi, che hanno minacciato di votare contro in commissione, avendo loro il potere di veto a causa della maggioranza risicata. Si stanno riorganizzando gli oppositori dalemiani e bersaniani nel Pd. Di qui l’altra tesi di Renzi: una legge elettorale la si fa con tutti quelli che ci stanno, anche con Berlusconi, che è il secondo partito d’Italia. Quando fu approvato il “Porcellum”, gli allora Ds rimproverarono l’ex premier di aver fatto una legge senza coinvolgere l’allora opposizione, ora, dice Renzi, non possiamo essere noi a fare altrettanto. Di qui l’incontro con Berlusconi sabato scorso (si veda in altra parte del giornale), che ha dichiarato la disponibilità a siglare l’accordo su tutto l’argomento elettorale e istituzionale (legge elettorale e Senato delle autonomie). L’incontro ha suscitato recriminazioni da parte di quelli che con lui hanno fatto il governo o continuano a collaborare politicamente ed elettoralmente. Grillo ha rifiutato, rinunciando ad affrontare i problemi reali del Paese in nome della protesta fine a se stessa, i centristi, come detto, minacciano di uscire dal governo.
Renzi, però, tira per la sua strada, mettendo i centristi di fronte alle loro responsabilità. Fanno cadere il governo? Renzi è in una botte di ferro, perché anche se si andasse alle elezioni con il Porcellum ridotto (sistema proporzionale puro, con una preferenza e senza premio di maggioranza), avrebbe la maggioranza schiacciante, diventerebbe presidente del Consiglio e farebbe lui le riforme con i parlamentari Pd scelti in gran parte da lui e compatti nel fare le riforme mai fatte.
La strategia è chiara e decisa, come sono chiare e decise le sue idee.